Il linguaggio, i post ed il reato di diffamazione

La diffusione sempre maggiore dei mezzi di comunicazione di massa e, soprattutto, delle nuove tecnologie impone, da un lato, una riflessione in merito all’applicabilità delle  regole giuridiche consolidate alla nuova realtà “digitale”, dall’altro, impone un’interpretazione estensiva delle stesse al fine di  adattare l’ordinamento giuridico all’odierna “società digitale”. La rete, come luogo virtuale entro il quale l’individuo svolge la sua personalità, reclama rilievo giuridico. Della rete sono evidenti  la rapidità della diffusione delle informazioni e  la connessa difficoltà di controllarne provenienza e attendibilità. Tali rilievi riverberano inevitabilmente sulla impressionante  facilità con la quale possono essere immessi e fatti circolare contenuti offensivi o denigratori.

Ai sensi dell’art. 595 del codice penale: “chiunque […] comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1032 Euro”. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità,  ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro. (c.d. diffamazione aggravata)”. Gli elementi, pertanto, caratterizzanti il reato di diffamazione sono: la comunicazione con più persone, intesa come pluralità di soggetti che siano in grado di percepire l’offesa e di comprenderne il significato, e l’offesa alla reputazione del soggetto, in maniera cosciente e consapevole.

Si tratta di delitto doloso al fine del quale, per quanto riguarda l’elemento soggettivo, non è necessario un preciso animus diffamandi, ovvero l’intenzione di ledere la reputazione di un’altra persona ; è sufficiente che il soggetto agente  abbia volontariamente inteso  comunicare l’offesa denigratoria a più persone e che si sia reso conto del danno alla reputazione che tale addebito ha causato o poteva causare ; dunque è sufficiente il dolo generico, consistente nella volontà cosciente di diffondere notizie e commenti con la consapevolezza della loro attitudine a ledere l’altrui reputazione.

Già nel 2000, la Corte di Cassazione, affermava che “i reati previsti dagli articoli 594 e 595 c.p. possano essere commessi anche per via telematica o informatica; basterebbe pensare alla cosiddetta trasmissione via e-mail, per rendersi conto che è certamente possibile che un agente, inviando a più persone messaggi atti ad offendere un soggetto, realizzi la condotta tipica del delitto di ingiuria (se il destinatario è lo stesso soggetto offeso) o di diffamazione (se i destinatari sono persone diverse)” (Cass. sez. V penale, 27.12.2000, n. 4741). La Corte ritiene, in particolare, che il reato di diffamazione si perfezioni nel momento in cui il messaggio viene recepito da soggetti terzi rispetto all’agente ed alla persona offesa “ben potendo i destinatari trovarsi persino a grande distanza gli uni dagli altri, ovvero dall’agente”. La diffamazione, oltre che per il mezzo dell’e-mail, può realizzarsi anche per mezzo di  mailing list, forum, newsgroup  e chat. Le condotte diffamatorie perpetrate attraverso l’utilizzo di forum, ad esempio, per la loro idoneità ad essere dirette  ad un numero indeterminato di soggetti espandono la portata lesiva delle condotte stesse (Cassazione penale, Sezione V, sentenza 20 Gennaio 2016, n. 2333). E’ sufficiente l’invio di un messaggio denigratorio al forum, per configurare l’ipotesi del tentativo, ravvisandosi in detto comportamento un atto idoneo diretto in modo non equivoco alla commissione del reato di diffamazione. Occorrerà invece la prova della effettiva lettura dei messaggi per l’individuazione del reato consumato.

Almeno inizialmente, la Corte non aveva ravvisato la configurabilità del reato ex art. 595 c.p. nell’ambito dei social network. Le ragioni di tale esclusione si basavano precipuamente  sulla non ravvisabilità degli elementi tipici del reato de qua. Questo l’orientamento prevalente fino a Corte di Cassazione n. 16712/2014 ove la Corte capovolge infatti la sua presa di posizione precedente: non solo sono da ritenersi sussistenti nei social network gli elementi della diffusione e della pubblicità, in un primo momento esclusi, ma  la diffamazione si ha addirittura nella sua forma aggravata ; per la Corte infatti, la frase offensiva “postata” su un social network è potenzialmente accessibile ad un numero indeterminato di soggetti che possono accedervi tramite la procedura di  registrazione. Tale orientamento può dirsi consolidato, essendo stato confermato anche in ulteriori e recentissime pronunce.  In Cassazione Penale, Sez. I, sentenza 08-06-2015 n. 24431 la Suprema Corte, intervenuta per risolvere un conflitto negativo di competenza, afferma che postare un commento denigratorio sulla “bacheca” della persona offesa costituisce un’ipotesi di diffamazione, punito e previsto dal comma 3 dell’art. 595 c.p. e conseguentemente attratto nella competenza del Tribunale monocratico.

L’orientamento indiscutibilmente rigoroso e punitivo si conferma con la sentenza Corte di Cassazione  n. 50/2017 , secondo cui “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma del codice penale, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone; l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando – e aggravando – in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche del social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica”.

Si è discusso se l’accesso al social network che richieda all’utente la registrazione escluda la natura di “altro mezzo di pubblicità”: ma è stata confermata  l’aggravante di cui all’art. 595.

In conclusione i social network definiti “un servizio di rete sociale, basato su una piattaforma software scritta in vari linguaggi di programmazione, che offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema” (Corte di Cassazione, sez. V penale, sentenza n. 4873/2017) sono “piazze virtuali” e strumento di condivisione per eccellenza ; ma i rischi derivanti da un  post sono certamente più elevati rispetto ad una conversazione diretta ; in quest’ultima infatti , rileva maggiormente il contesto , la possibilità di correggere il tiro , la possibilità di una sorta di rettifica immediata , mentre il post è  una documentazione asettica , oggettivamente sullo “schermo”.

Bari: la condanna dell’avvocato coinvolto nel filone d’indagine Berlusconi Tarantini confermata in Cassazione

Ai sensi dell’articolo 3 Legge n. 75 del 20 febbraio 1958 (c.d Legge Merlin) è punito “con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 258 a euro 10.329chiunque induca alla prostituzione una donna di maggiore età o compia atti di lenocinio sia personalmente in luoghi pubblici o aperti al pubblico sia a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” nonché “chiunque, in qualsiasi modo, favorisca la prostituzione altrui”.

Cosa si intende per induzione e favoreggiamento della prostituzione ?

Quali  comportamenti integrano, di fatto, i suddetti reati?

Induzione è ogni attività di persuasione o convincimento messa in atto al fine di indurre qualcuno ad offrire il proprio corpo in cambio di denaro.

Favoreggiamento è invece qualsiasi attività diretta ed idonea in qualsiasi modo a facilitare, favorire l’esercizio della prostituzione.

La giurisprudenza, interrogandosi su quali condotte  possano integrare l’uno o l’altro reato, spesso ha  ampliato  i confini dei comportamenti penalmente rilevanti; significativa la recentissima sentenza della Corte di Cassazione n° 2399 /2018  ( Sentenza n° 2399 /2018 III° Sez Penale ).

Il caso sottoposto all’attenzione degli Ermellini prendeva piede da una serie di  fatti avvenuti tra il  2008 e il 2009: un avvocato insieme ad altre 9/10 persone veniva rinviato a giudizio per i reati di associazione a delinquere, induzione e favoreggiamento della prostituzione con riferimento alle famose “feste” di Berlusconi.

L’avvocato barese optava per il rito abbreviato ed in prima battuta veniva assolto dal GUP di Bari dal reato di associazione a delinquere; nel contempo veniva condannato per i reati di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Nel 2015 la sentenza di primo grado veniva sostanzialmente confermata  dalla Corte d’Appello di Bari la quale stabiliva che la condotta  dell’imputato  integrava  i  reati in esame in quanto il medesimo dapprima aveva fatto sorgere in una giovane ragazza, desiderosa  di intraprendere la  carriera nel mondo dello spettacolo, il convincimento di poter veder realizzate le proprie ambizioni  fornendo prestazioni sessuali in favore di un noto politico italiano ( Berlusconi ) e successivamente aveva reso possibile l’incontro,  presentando la stessa a Tarantini, a sua vota stretto conoscente del politico.

Ebbene, la Suprema Corte ha confermato la pena inflitta dalla Corte barese condannando l’avvocato a 11  mesi e 10 giorni di reclusione, nonché 1.200 euro di multa.  Più precisamente ha così sentenziato: “In tema di prostituzione, ogniqualvolta la condotta dell’agente rivesta un’efficacia causale e rafforzativa dell’altrui volontà, nel senso che senza il fatto del colpevole il soggetto passivo non si sarebbe determinato a prostituirsi, è ravvisabile quella condotta di induzione– sub specie di determinazione – a concedere ad altri il proprio corpo, normativamente richiesta dalla legge ai fini della punibilità del reo” ; nel contempo ha stabilito che: “qualsiasi interposizione agevolativa, anche occasionale, che sia idonea a procurare condizioni più facili per l’esercizio dell’altrui prostituzione, con la consapevolezza di facilitarla  integra il reato di favoreggiamento”

Secondo la Corte è innegabile che l’imputato abbia convinto la ragazza  “a farlo” ed è altresì innegabile che il porre in contatto la ragazza con il Tarantini abbia facilitato ed agevolato l’attività prostitutiva della stessa così consentendole di incontrare il politico; sviluppo di cui l’imputato /avvocato  era perfettamente a conoscenza ed in grado di rappresentarsi..

La Corte ha infatti affermato che   “fu proprio il ricorrente a far sorgere nella ragazza l’idea di poter realizzare le sue aspettative di lavoro fornendo prestazioni sessuali (…) sia perché conosceva le ambizioni della ragazza , sia e soprattutto perché facendo leva su queste ultime , fu proprio il ricorrente a proporre alla ragazza di incontrarsi con il facoltoso cliente e fornire a quest’ultimo prestazioni sessuali per realizzare le predette ambizioni” ; ed ha sottolineato come tutto ebbe inizio proprio nello Studio del legale “se non vi fosse stato l’intervento dell’attuale imputato, la ragazza non avrebbe compiuto con il facoltoso cliente attività sessuale dietro utilità economica”

A nulla sono servite le difese formulate dai difensori del’avvocato/imputato , secondo i quali : “non vi sarebbe stata alcuna opera di persuasione, convincimento o rafforzamento della volontà della ragazza di incontrare il politico, dalla stessa definito ‘grande occasione’ e ‘bella opportunità’ e che “la mera presentazione della ragazza  non integrerebbe nemmeno l’ipotesi di favoreggiamento” risultando di fatto l’avvocato estraneo “a tutte le attività successive, ovvero non avendo affatto concorso all’organizzazione dell’incontro” con l’onorevole Berlusconi ; non avendone tantopiù nemmeno parzialmente sostenuto le spese”,

La lettura della Sentenza è interessante.

Viene da domandarsi come in concreto  l’imputato ed i suoi  difensori abbiano avuto e/o comunque abbiano cercato di dimostrare che la scelta era stata assolutamente autonoma. Sotto diverso profilo, l’affermata sussistenza del reato d’induzione lascia comunque perplessi, in quanto, la  Corte pare non aver valutato la circostanza che il fatto sia stato compiuto dopo giorni, se non settimane, dall’incontro nello Studio  e, conseguentemente, avendo la ragazza il tempo di riflettere, riesaminare e ponderare ciò verso cui si avviava  il concetto di induzione sembrerebbe dissolversi.

A chiusura della disamina si annoti che,

– si parla di fatti del 2008/2009, ed anche se siamo di fronte ad una Sentenza definitiva  per comprendere veramente ogni risvolto della vicenda il cammino appare ancora lungo. Il processo di appello a Tarantini ed altri è iniziato nel dicembre 2017 ed, ovviamente, anche Loro avranno diritto a tutti i gradi di giudizio; quindi è immaginabile, in caso di condanna, un giudizio davanti la Corte di Cassazione nel 2021!

– la Pubblica Accusa ha contestato a carico del “Cavaliere” per la Sua testimonianza resa nel procedimento, di cui qui si è discusso , il reato di falsa testimonianza  ed il Gup di Bari , vista la scadenza elettorale del Marzo 2018, per non condizionare gli elettori, ha stabilito che la decisione, sul rinvio a giudizio, sarà da Lui emanata successivamente alla detta scadenza elettorale.