La responsabilità in ambito sanitario ed il consenso informato

Secondo la legge n. 24/2017,  nota come legge “Gelli – Bianco” dal nome dei promotori, nell’ipotesi in cui un paziente sia preso in cura da una struttura ospedaliera, si generano due distinte vicende giuridiche: una relativa al rapporto  tra struttura sanitaria e paziente, l’altra concernente il rapporto tra paziente e medico.

Il rapporto che lega struttura sanitaria e paziente configura un contratto di “spedialità”, cioè un contratto atipico avente ad oggetto prestazioni di natura sanitaria, tecnica e anche alberghiera.  Pertanto, si verte in un’ipotesi di responsabilità contrattuale.

Diversamente, il rapporto che si instaura tra paziente e medico che in concreto esegue la prestazione sanitaria è di natura extracontrattuale.

Seguendo tale suddivisione: il termine prescrizionale per agire in giudizio sarà di dieci anni nei confronti della struttura sanitaria (responsabilità contrattuale) e di cinque anni nei confronti del medico operante (responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.).

Con riguardo all’onere della prova, invece, è recentemente intervenuta la Cassazione sottolineando come nei  giudizi di responsabilità medica si configuri un duplice ciclo causale: uno inerente al nesso tra l’insorgenza o l’aggravamento della patologia e la condotta del sanitario, il cui onere della prova è a carico del creditore/danneggiato (con la conseguenza che la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso), e uno inerente alla sussistenza di una causa imprevedibile ed inevitabile che ha reso impossibile la prestazione, quale causa di estinzione dell’obbligazione risarcitoria, il cui onere è a carico del danneggiante e che assume rilievo solo ove risulti dimostrato il “primo” ciclo causale (Cass. Civ. n. 5487/2019 e n. 6593/2019).

Con riguardo alla responsabilità del medico ex art. 2043 c.c., il paziente-danneggiato sarà tenuto a dimostrare l’imperizia del medico e l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, il nesso di causa e tutte le conseguenze risarcitorie.

Ma quali sono i criteri per affermare l’imputabilità della condotta generatrice del danno, tenuto conto dei diversi obblighi che incombono sul medico nell’esecuzione della prestazione sanitaria?

Di norma, nell’ambito della responsabilità civile professionale, gli addebiti attengono a ipotesi di imperizia, ovvero al mancato rispetto delle c.d.“regole dell’arte” che governano una certa branca scientifica e che il soggetto qualificato è tenuto ad osservare.

Nel settore medico, le regole tecniche sono trasfuse nelle c.d. linee guida redatte da organismi scientifici riconosciuti, cioè raccomandazioni di comportamento clinico per decidere le modalità di assistenza al paziente più appropriate in specifiche circostanze cliniche.

Il rispetto di tali protocolli comportamentali, dal quale il medico potrà e dovrà discostarsi solo ove lo richieda la peculiarità del caso, è indice di una condotta perita del sanitario, tanto che la conformità della condotta del medico a tali linee guida è elemento di cui il Giudice potrà tenere conto nella determinazione del risarcimento del danno, a norma dell’art. 7, co. 3, l. n. 24/2017.

Tale legge impone, infatti, il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche cliniche da parte del medico, purché adeguate alla specificità del caso concreto. Se il discostamento non è sorretto da fondate ragioni scientifiche, di norma la scelta tecnica del sanitario sarà esposta a censura per imperizia. 

Ma non è tutto.

Il sanitario è infatti tenuto a fornire una idonea ed esaustiva informazione al paziente circa la natura, la portata e l’estensione del trattamento medico, al fine dell’acquisizione di un valido consenso all’esecuzione.

In virtù del diritto all’autodeterminazione, il paziente deve essere infatti messo nelle condizioni di conoscere le conseguenze dell’intervento medico, per poter adottare tutte le possibili decisioni in piena consapevolezza e decidere tra diverse opzioni di trattamento medico, anche rifiutando o interrompendo i trattamenti proposti o in esecuzione, nonché decidere di acquisire pareri di altri sanitari e/o rivolgersi ad altre strutture, o, ancora, potrà meglio predisporsi ad affrontare le conseguenze dell’intervento. Anche il medico che esegua un intervento sul paziente “a regola d’arte” (e quindi conformemente alle linee guida)  senza averne previamente acquisito il consento informato, non andrà esente da responsabilità e potrà essere chiamato a rispondere tanto del danno alla salute, che possa esserne comunque conseguito, ma anche del danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, come pacificamente affermato anche dalla giurisprudenza più recente (Cass. Civ. n. 7248/2018; Cass. Civ. n. 11749/2018; Cass. Civ. n. 20885/2018).

In questo caso si profilano due distinte condotte, una di grave imperizia con conseguente ritardo diagnostico e l’altra di mancata acquisizione del consenso informato prima dell’esecuzione di un intervento da cui sia conseguito un danno alla salute. Quali saranno i danni-conseguenza risarcibili al paziente-danneggiato?

Nel caso di intervento operato in difformità dalle linee guida, come ad esempio nell’ipotesi di omissione di un esame specifico da cui sia conseguito un ritardo diagnostico di una grave patologia, di norma, si determina una perdita delle chances di sopravvivenza del paziente e non un danno biologico, posto che a violare l’integrità fisica è il decorso della malattia e non la condotta del medico in quanto tale.

Sul punto, valorizzando gli approdi ermeneutici cui è giunta una recente sentenza della Cassazione (Cfr. Cass. Civ., n. 169093/2015), in caso di omessa diagnosi oncologica va risarcita la perdita per il paziente di conservare una “migliore qualità della vita” intesa come possibilità di “programmare il proprio essere persona” in vista dell’approssimarsi della fine. Tale danno viene, di norma, liquidato in via equitativa dal giudice.

Nel caso si sia determinato anche un danno biologico, l’art. 7 co. 4 della L. 24/2017 rinvia per la sua liquidazione agli artt. 138 e 139 del cod. ass.. Va precisato che, mancando a tutt’oggi la tabella Ministeriale per le c.d. macropermanenti (art. 138 cod. ass.), si ricorrerà a parametri pretori quali le c.d. Tabelle di Milano.

Dirimente anche Cass. Civ. II sez. n. 8756/2019.

Nel caso di omessa previa acquisizione del consenso informato da parte del medico in relazione ad un intervento, al quale il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi, e che, seppur eseguito “a regola d’arte”, gli abbia cagionato un danno alla salute, il paziente-danneggiato potrà richiedere il risarcimento del danno alla salute e il risarcimento del diritto da lesione alla autodeterminazione, sia pur entro certi limiti, anche in ordine all’onere probatorio. Il danno alla salute può ritenersi sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi ad un dato intervento (dunque ad un intervento eseguito in certe condizioni, in una certa struttura sanitaria e da parte di un dato medico) e di subirne le conseguenze invalidanti. In altri termini, il paziente dovrà essere in grado di allegare e provare, anche mediante presunzioni, e’ che, se compiutamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi alla terapia nelle condizioni e con le modalità con cui e’ stata eseguita, perché in questo modo viene fornita la prova del nesso causale tra la mancanza di un consapevole consenso e il danno alla salute verificatosi a seguito della sottoposizione all’operazione.

Quanto al danno al diritto alla autodeterminazione, che può assumere rilievo autonomo a prescindere dal danno alla salute, esso sussiste “quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute”, che superi un livello minimo di tollerabilità, come affermato dalla recente sentenza n. 7248/2018.

Grava in capo al paziente l’onere di allegare e provare il pregiudizio patito, sia patrimoniale che non patrimoniale. Con riguardo a quest’ultimo in particolare, il paziente potrà offrire la prova anche mediante presunzioni, tenuto conto dunque della gravità delle condizioni del paziente e del grado di necessarietà dell’operazione.