Videosorveglianza nei luoghi di lavoro

La videosorveglianza nei luoghi di lavoro è tema dibattuto ed attuale rispetto al quale appare forte la tensione con il diritto alla privacy; tensione che esige regolamentazione dettagliata delle modalità di effettuazione; nonché dell’ammissione nel processo dei corrispondenti risultati. Durante gli ultimi anni la normativa in materia di sorveglianza e videosorveglianza nei luoghi di lavoro ha subito alcuni mutamenti: se da un lato il decreto attuativo del c.d. Jobs Act (D. Lgs. n. 151/2015) ha modificato l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori in materia, dall’altro, la giurisprudenza, con la sentenza Corte di Cassazione, Sezione II Penale, 30 gennaio 2018, n. 4367 torna ad occuparsi di tali temi, ovvero  della utilizzabilità di dette riprese nel processo penale.

Il caso processuale:  con sentenza del 2011 il Tribunale di Verbania  dichiarava una lavoratrice subordinata responsabile del reato di appropriazione indebita e, per l’effetto, la condannava alla pena di mesi 6 di reclusione. Avverso tale pronunzia l’imputata proponeva  appello avanti la Corte d’appello di Torino che, con sentenza del 2017, esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 7 del c.p. ed effettuata la riduzione per la scelta del rito abbreviato, rideterminava la pena inflitta in mesi 3 di reclusione. Nell’adire la Suprema Corte l’imputata deduceva, oltre a  vizi motivazionali, l’inutilizzabilità delle immagini captate con il sistema di videosorveglianza.

La Corte di Cassazione nel dichiarare il ricorso inammissibile, mediante la citata sentenza n. 4367/2018, torna a sottolineare quello che ormai può affermarsi essere principio consolidato : “sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all’interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori”.

Per la Corte dunque sono da ritenersi legittime ed utilizzabili le videoriprese effettuate nei luoghi di lavoro; ma  cosa si intende per videoriprese e qual è la disciplina applicabile in materia?

Il tema impone un’analisi incrociata tra il sistema giuslavoristico e quello processuale penale.

Con il termine videoriprese ci si riferisce alla registrazione, mediante strumenti di captazione visiva, di quanto accade in un luogo. Sebbene il codice di procedura penale non le menzioni tra gli strumenti investigativi, la giurisprudenza di legittimità ha più volte specificato come i risultati delle videoriprese effettuate dal datore di lavoro per tutelare propri beni aziendali possano fare ingresso nel processo come documenti acquisibili in dibattimento ex art. 234 c.p.p., ovvero  la rappresentazione di fatti, persone o cose effettuata al di fuori del procedimento. Per quanto riguarda i  limiti all’acquisizione viene  qui in rilievo l’art. 4 l. 300/1970. il D.Lgs n. 151/2015, attuativo di una delle deleghe contenute nel c.d. Jobs Act, modifica e riformula tale norma dettata proprio in materia di videosorveglianza. La riscrittura dell’articolo 4 contempera le esigenze organizzative e produttive aziendali, al diritto del lavoratore a che lo svolgimento delle sua attività non sia sottoposta al controllo a distanza da parte del datore di lavoro.

Ai sensi del novellato art. 4 “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi”.

Dunque, fermo il previgente divieto di controllare la sola prestazione lavorativa dei dipendenti, il nuovo comma 1 dell’art. 4 elenca le ragioni giustificatrici che consentono al datore di l’utilizzo di strumenti di videoripresa:

  • esigenze organizzative e produttive 
  • sicurezza del lavoro
  • tutela del patrimonio aziendale                                                                                                          

L’aspetto innovativo della norma è l’inserimento, tra i requisiti oggettivi, della tutela del patrimonio aziendale.                          Il Garante per la Privacy ha altresì provveduto a specificare che l’uso di impianti di videosorveglianza deve ritenersi ammesso per diverse finalità legittime che includono  la tutela dei beni aziendali e l’acquisizione di prove, purché ciò non determini un’ingerenza ingiustificata nei diritti e nelle libertà delle persone.                                                                                                       La giurisprudenza penale, dal canto suo, ha sostanzialmente ritenuto dette videoriprese utilizzabili a fini probatori nel processo penale. La  ratio si sostanzia nel principio della prevalenza dell’ interesse pubblico alla prevenzione ed accertamento dei reati rispetto alla riservatezza dei dipendenti. La Suprema Corte ha ritenuto dirimenti le finalità perseguite dal datore nell’installare gli impianti di ripresa visiva: in particolare, si afferma, sono utilizzabili nel processo penale le videoriprese effettuate con telecamere installate nei luoghi di lavoro per accertare comportamenti potenzialmente delittuosi perché le norme dello Statuto dei lavoratori, poste a presidio della loro riservatezza, non fanno divieto dei cosiddetti “controlli difensivi” del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio.

In conclusione, per quanto riguarda i  controlli difensivi: se è vero  che l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, seppure con le modifiche introdotte dal c.d. Jobs Act, continua a proibire l’uso di telecamere per il controllo a distanza dei lavoratori, è altrettanto vero che lo stesso articolo permette l’installazione di un sistema di videosorveglianza laddove il datore di lavoro sospetti una condotta illecita da parte del dipendente. In altre parole l’animus deve essere volto non al controllo a distanza dei dipendenti nello svolgimento delle loro mansioni, bensì all’ottenere la conferma dell’attività illecita e quindi, di conseguenza,  a difendere il patrimonio aziendale.