Resistenza a Pubblico Ufficiale

Ai sensi dell’art. 337 c.p., questa è la definizione del delitto di Resistenza a Pubblico Ufficiale: “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.

La norma in esame si colloca nell’alveo dei c.d.  reati plurioffensivi in quanto  finalizzata, da un lato,  alla tutela della libertà di azione del pubblico ufficiale, ovvero a garantire a quest’ultimo di esplicare la propria attività senza trovare ostacolo in forme di coazione fisica o morale posta in essere con l’ intento di impedirne il pieno esercizio, e, dall’altro al corretto funzionamento dell’attività della Pubblica Amministrazione.  In ordine al rapporto intercorrente tra i due beni giuridici, la Corte Costituzionale, con Sentenza del 27 dicembre 1996, n. 425, ha precisato che: “nel reato di resistenza non viene in preminente considerazione il diritto personale del cittadino investito di pubblica funzione al rispetto della propria dignità e libertà privata, bensì il diritto dovere della stessa pubblica amministrazione di non subire intralci nell’assolvimento dei suoi compiti”.

L’atto di resistenza deve concretizzarsi nella coscienza e volontà dell’agente di usare violenza o minaccia per opporsi al soggetti tutelati nel compimento dell’atto d’ufficio. Il dolo richiesto è infatti specifico: l’agente deve voler ostacolare l’attività del pubblico ufficiale.

La violenza o minaccia devono accompagnare e non anticipare il compimento dell’atto e devono essere idonee a costituire un impedimento concreto per l’esercizio del pubblico ufficio, ovvero devono essere reali e connotarsi in termini di effettività causale a coartare o ad ostacolare l’agire del pubblico ufficiale.

Si noti che non è  tuttavia necessario che la violenza o la minaccia siano usate direttamente sulla persona del pubblico ufficiale, con la conseguenza che è sufficiente anche la sola  violenza sulle cose, idonea ad ostacolare o turbare il compimento dell’atto.

Discusso è il problema che riguarda la c.d. fuga; è pacifico che la semplice fuga a piedi non possa mai configurare il reato in esame, in quanto in essa non è ravvisabile né violenza né minaccia, ma il reato è integrato allorquando la fuga sia stata agevolata da “spintoni” che il soggetto dà all’agente di polizia al fine di divincolarsi. Esemplificando, costituiscono resistenza a pubblico ufficiale: la fuga in auto per forzare un posto di blocco; la fuga in auto attuata con fulminei testa-coda per costringere gli inseguitori a manovre ritardatrici onde evitare l’urto; la fuga in auto attuata con modalità tali da porre in pericolo l’incolumità degli inseguitori.

Diverso il caso della c.d. resistenza passiva che in quanto negazione di qualunque forma di violenza o di minaccia rimane al di fuori della previsione legislativa: così Cass., sez. VI, n. 7061/1996.

Si differenzia dalla c.d. resistenza passiva la c.d. resistenza impropria, ovvero quella violenza che si riverbera negativamente sull’esplicazione della funzione pubblica, pur non aggredendo in modo diretto il pubblico ufficiale, impedendolo o comunque  ostacolandolo. Per la Cassazione la resistenza passiva è definibile  come qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione e viene posta in essere attraverso l’uso di mezzi anomali, cose o atti autolesionistici, diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (Cassazione penale, Sez. V, ottobre 2015 n. 48346).

Riflettendo sul vivere quotidiano, nasce spontaneo un interrogativo:

qualora l’agente, con una sola azione usi violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o a più incaricati di pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio, la sua violenza deve considerarsi come l’integrazione di più reati di cui all’art. 337 c.p. in continuazione o come un unico reato?

Con ordinanza del 12/12/2017 è stata disposta la rimessione alle Sezioni Unite Penali della questione, sussistendo in materia un contrasto giurisprudenziale.

Secondo la giurisprudenza più risalente infatti, si ha continuazione di reati in quanto la resistenza, pur ledendo unitariamente il pubblico interesse alla tutela del normale funzionamento della pubblica funzione, si risolve in distinte offese al libero espletamento dell’attività funzionale di ciascun pubblico ufficiale.

Più recentemente invece si è affermata l’unicità del reato, fondando la tesi sulla formulazione del dato letterale dell’art. 337 c.p. che pone quale obiettivo della condotta criminosa l’opposizione all’atto piuttosto che la violenza o minaccia nei confronti del singolo in quanto tale.  Secondo l’impostazione se si considerassero più fattispecie criminose, si perderebbe di vista il bene oggetto della salvaguardia e per giunta sarebbe necessario considerare e ravvisare l’atteggiamento psicologico richiesto dalla norma nei confronti di ciascuna persona distintamente considerata.

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Si sottolinea, infine, che nei  casi di abuso, il codice penale prevede la non punibilità del soggetto che abbia reagito ad un sopruso. In particolare l’art. 1, 9° comma, della legge 94/2009, recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, ha introdotto nel nostro Ordinamento un causa di non punibilità, ossia la c.d. legittima reazione dei cittadini agli atti arbitrari dei pubblici ufficiali. La  norma, confluita nell’art. 393-bis del codice penale, statuisce il legittimo diritto del cittadino a reagire agli abusi dell’Autorità. Si pensi ai reati di violenza, minaccia, resistenza a un pubblico ufficiale, ma anche di violenza o minaccia a un corpo politico, all’Autorità Giudiziaria, ecc.; in questi casi la condotta del cittadino non è punibile se è la reazione ad un abuso della stessa Autorità: “Non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 341 bis, 342 e 343 quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari  i limiti delle sue attribuzioni.

La norma in questione, dunque, statuisce che, nelle ipotesi suddette, il cittadino sia scriminato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato del pubblico servizio (ovvero il pubblico impiegato) abbiano dato causa alla sua condotta illecita. L’esimente non è di poco conto e ha trovato applicazione in molti casi. E’ stata, ad esempio, riconosciuta legittima la reazione di un cittadino agli atti arbitrari di un poliziotto che voleva perquisirlo senza che vi fossero gli elementi obiettivi e normativi idonei a giustificare la perquisizione (Cass. pen. Sez. VI, 14-04-2011, n. 18841); altrettanto giustificata è stata ritenuta la resistenza di un cittadino ad un pubblico ufficiale che, illecitamente, voleva tradurlo in Caserma (in difetto dei presupposti previsti dalla legge). In conclusione, rispetto del ruolo e del lavoro del pubblico ufficiale, ma legittimo resistere in caso di abuso!