VIOLENZA SESSUALE – IL RILIEVO DELLE DIVERSE CULTURE STRANIERE

I consistenti flussi migratori dei giorni d’oggi rendono sempre più plausibile la circostanza che un individuo, appartenente ad un gruppo etnico minoritario, violi una norma penale dell’ordinamento di accoglienza nell’atto di compiere un comportamento invece tollerato, autorizzato o persino imposto nel contesto culturale di provenienza. Quanto detto mette in luce il tema dei reati culturalmente orientati, ovvero quei comportamenti che nell’ordinamento italiano costituiscono reato ma che, nel contempo, sono espressione di principi, valori e consuetudini riconosciuti dal gruppo etnico cui appartiene il reo.

L’ordinamento dovrebbe dare rilevanza al motivo culturale che ha spinto l’agente a commettere il reato e  riservare allo stesso un trattamento sanzionatorio particolare?

L’ordinamento giuridico come deve porsi rispetto al condizionamento esercitato dall’appartenenza culturale di un individuo circa le modalità esecutive di una condotta penalmente rilevante?

Al fine di rispondere a questi due interrogativi bisogna comprendere se, ed in che termini, possa esistere la c.d. scriminante culturale.

La (presunta) esimente culturale

Molto spesso, in situazioni di questo tipo, durante il processo, la difesa dell’imputato invoca l’applicazione della c.d. esimente culturale. Si tratterebbe di  una presunta causa di esclusione dell reato modellata sulla falsariga di quella disciplinata ex art. art. 51 c.p. ovvero quella dell’ esercizio di un diritto o adempimento di un dovere. In particolare, la scriminante opererebbe sulle condotte costituite dall’esercizio di un diritto riconosciuto o tollerato nella cultura di origine.

La Suprema Corte, dal canto suo, già in precedenti pronunce aveva ritenuto che il richiamo alla cultura ed al costume del paese d’origine dell’imputato non potesse valere ad escludere l’elemento psicologico del reato e che l’imputato straniero non potesse invocare la scriminante dell’esercizio di un diritto riconosciuto nel paese di provenienza, qualora tale diritto non venga riconosciuto nell’ordinamento del nostro Paese.

Sempre la Cassazione aveva poi precisato che lo straniero che si stabilisce in un nuovo paese dovrebbe avere una corretta informazione sulla compatibilità dei propri comportamenti con i principi sanciti dal nuovo stato, non ritenendo plausibile che chi si trasferisce in un paese diverso ritenga, in buona fede, di poter mettere in atto qualsiasi condotta in quanto consentita dalla cultura del paese di origine.

Con la Sentenza n. 29613/2018, depositata il 3 luglio 2018, la Suprema Corte fa il punto sull’argomento.

Il caso

Una coppia di genitori di origine albanese veniva tratta in giudizio per rispondere del reato di violenza sessuale aggravata ai sensi dell’art. 609 ter ult. co. c.p.. (La pena è della reclusione da sette a quattordici anni se il fatto è commesso nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni dieci ). Il padre, infatti, abusando della sua autorità, del divario di età e della condizione di immaturità del figlio minore costringeva con violenza quest’ultimo a compiere e subire atti sessuali (palpeggiamenti nelle parti intime e rapporti orali), mentre la madre,  nonostante l’obbligo giuridico di evitare i gravi abusi perpetrati ai danni del figlio, non interveniva pur essendone a conoscenza (art. 40 c.p.).

Ai sensi dell’art. 609 c.p. “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità  costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona; Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”

La norma è chiaramente posta a tutela della libertà sessuale, ovvero la libertà di autodeterminarsi in ordine alla propria sfera sessuale. Le condotte prese in considerazione sono essenzialmente due:

la violenza sessuale per costrizione, realizzata per mezzo di violenza, minaccia o abuso di autorità;

la violenza per induzione, attuata mediante abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa o mediante inganno, per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

Nel concetto di atti sessuali deve ricomprendersi ogni atto comunque coinvolgente la corporeità della persona offesa, posto in essere con la coscienza e volontà di compiere un atto invasivo della sfera sessuale di una persona non consenziente. Anche un bacio o un abbraccio sono idonei a compromettere la libertà sessuale dell’individuo, qualora, in considerazione della condotta complessiva, del contesto in cui l’azione si è svolta, dei rapporti intercorrenti tra le persone coinvolte, emerga una indebita compromissione della sessualità del soggetto passivo. La violenza consiste non solo nell’esercizio di una vis fisica o materiale, ma anche qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che abbia come ricaduta la limitazione della libertà del soggetto passivo, costretto, contro la sua volontà, a subire atti sessuali. Per quanto concerne invece la minaccia, essa consiste nella prospettazione di un male ingiusto e notevole quale conseguenza del rifiuto a subire la condotta. Per abuso di autorità, invece, si intende sia l’abuso commesso dal pubblico ufficiale, sia quello commesso dal privato, che strumentalizzi la sua posizione di supremazia nei confronti della vittima.

La coppia veniva assolta in entrambi i gradi di giudizio, sebbene con motivazioni differenti

Nel corso del processo di primo grado il Giudice ha escluso il configurarsi del reato per mancanza dell’elemento soggettivo, ovvero ritenendo insussistente il dolo dell’agente sulla base di una riconosciuta scriminante culturale:  pur non avendo dubbi sulla sussistenza dell’elemento materiale del reato, dunque, il Tribunale ha ritenuto di  escludere che la condotta fosse accompagnata dalla coscienza del carattere oggettivamente sessuale, secondo la nostra cultura, delle condotte poste in essere.

La Corte d’Appello è andata addirittura oltre, escludendo tout court la sussistenza del reato. I giudici hanno ritenuto che i fatti si traducessero in meri gesti di affetto e di orgoglio paterno nei confronti del figlio maschio secondo tradizioni proprie di alcune zone rurali interne dell’Albania e, che dunque, per l’effetto, tali gesti fossero da considerarsi privi di connotazioni sessuali.

Contro la sentenza ha fatto ricorso in Cassazione il procuratore generale della Repubblica chiedendone l’annullamento. Nei cinque motivi di impugnazione formulati, la parte ricorrente lamentava contraddittorietà della sentenza e vizio di motivazione, nonché plurime violazioni di legge (in riferimento agli artt. 5, 609 bis, 609 ter e 612 c.p.).

La posizione della Cassazione e le linee guida

Gli Ermellini, inquadrano innanzitutto la categoria dei reati culturalmente orientati, specificando come questi siano da considerarsi come un istituto non uniforme ed escludendo in toto che la norma penale possa essere abdicata in virtù di rispetto di tradizioni culturali, religiose, sociali del cittadino o dello straniero.

Tali tradizioni infatti devono tenere conto dei limiti derivanti dall’ordinamento giuridico nel quale esse vengono a trovarsi, non potendo, quindi, in alcun modo sovrapporsi alla norma giuridica. Per la Cassazione, insomma, non potrà mai prescindersi dal bilanciamento tra il diritto inviolabile del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni ed i valori offesi dalla sua condotta.

Sarà altresì necessaria, prosegue la Cassazione, valutare la natura della norma culturale in adesione alla quale è stato commesso il reato (se di matrice religiosa o giuridica) e il carattere vincolante della regola (se rispettata in modo diffuso da tutti i membri del gruppo culturale o desueta e poco diffusa). Infine, assumerà rilievo il grado di inserimento dell’immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del Paese d’arrivo o il suo grado di perdurante adesione alla cultura d’origine, indipendentemente dal tempo di permanenza nel nuovo paese.

Riassumendo, la Corte individua tre linee guida in tema di reati culturalmente orientati e c.d. scriminante culturale:

  1. è necessario un giudizio di bilanciamento tra tutela delle tradizioni culturali e valori offesi;
  2. è necessario valutare la natura della norma culturale ed il carattere vincolante della regola;
  3. è necessario valutare il grado di inserimento dell’agente nella cultura e nel tessuto sociale del Paese d’arrivo.

Applicando le descritte direttrici al caso di specie, la Corte ha escluso la sussistenza della scriminante culturale ed ha ritenuto fondato il ricorso del procuratore generale.

La presunta tradizione culturale affermata dalla difesa emergeva dalle mere dichiarazioni difensive degli imputati;  la sedicente norma culturale sarebbe stata in contrasto anche con le prescrizioni del codice penale albanese; gli imputati erano poi  ben integrati nel tessuto sociale.

La Cassazione conclude sottolineando che, in tema di reati culturalmente orientati, se da un lato è fondamentale che l’interpretazione delle norme penali risenta del momento storico e culturale di riferimento, dell’integrazione dei migranti nella compagine sociale e del conseguente multiculturalismo, dall’altro non può pretendersi che il sistema penale retroceda, tralasciando di sanzionare comportanti che colpiscono o mettano in pericolo i beni di maggiore rilevanza tutelati dal nostro ordinamento, quali, come nel caso di specie, la tutela di autodeterminarsi in ordine alla propria sfera sessuale.