Conversazione / Intervista: anziano e amministrazione di sostegno – quotidiano LaVoce Online

Genitori anziani e responsabilita’ legali: la tumultuosa angoscia dei figli

INTERVISTA ALL’AVV. MASSIMO MINUTI – Patrocinante in Cassazione

A cura di DANIELA CAVALLINI

Daniela Cavallini:
La tutela a favore dell’anziano è un tema decisamente complesso poichè pone in contrasto
responsabilità legali con problemi economici e, soprattutto, affettivi. Se per il lato affettivo,
ognuno agisce secondo coscienza, non è possibile sostenere l’identico criterio di soggettività nei
confronti degli obblighi di Legge, quindi è il caso di fare chiarezza…
Avv. Massimo Minuti:
Il nostro Ordinamento non ha una norma specifica dedicata all’anziano; la detta tutela deriva dagli
articoli 591 Cod .Penale e l’art 433 Cod. Civile. che regolamentano anche altre situazioni, non
soltanto lo status di anziano.
L’art. 591 c.p. ( abbandono di persone minori ed incapaci) sancisce un obbligo giuridico di prestare
le cure e l’assistenza all’anziano che per vecchiaia non sia in grado di provvedere a se stesso; tale
omissione prevede una pena che parte da un minimo di sei mesi per arrivare ad un massimo di
cinque anni.
In concreto l’anziano non deve essere in grado di provvedere a sé stesso; i familiari tenuti alla cura e
all’assistenza sono: il coniuge, i figli o comunque i parenti più prossimi; ma, attenzione, l’essere
“povero” per esempio non integra la fattispecie; quello che rileva è il non aver autonomia; non
essere in grado di capire, non essere in grado di curarsi.
L’art. 433 c.c. ( persone obbligate agli alimenti ) invece stabilisce che l’anziano che si trova in stato
di bisogno ha diritto agli alimenti; le persone obbligate sono, nell’ordine: 1) il coniuge, 2) i figli ed
in loro mancanza i discendenti, 3) i genitori e in loro mancanza gli ascendenti prossimi, 4) i generi e
le nuore, 5) suocero e suocera, 6) fratelli germani o unilaterali; ciascuno contribuisce in base alla
proprie condizioni economiche. E’ una vera e propria graduatoria gerarchica; se esiste il coniuge Lui
deve provvedere; solo in assenza del coniuge si passa ai figli e così via; peraltro gli alimenti integrano
una soglia ben al di sotto di un potenziale mantenimento; tanto per intenderci gli alimenti possono
essere quantificati contenuti in modesti euro 250, 00 mensili, mentre un mantenimento offrirebbe
soglie certamente più elevate
Siamo perciò di fronte ad una norma penale ed una norma civile con parametri ed effetti molto
diversi tra loro; nella vita bisogna però essere pratici , quindi bene non scordare che in un processo
penale si ha una sentenza di primo grado dopo quattro anni ( che poi peraltro può essere
impugnata); mentre l’obbligo di natura civilistica ha effetti più immediati, si ottiene nell’arco di sei
mesi; conseguentemente , sia scusata la freddezza , l‘anziano rispetto alla Tutela penale farebbe in
tempo a morire!

Daniela Cavallini:
Qualora vi fosse indisponibilità o impossibilità ai citati adempimenti legali da parte delle figure
designate, queste, in quali rischi incorrono?
Avv. Massimo Minuti:
Innanzitutto si deve distinguere in quale condizione si trovino i destinatari di tali norme, perché, un
conto è sottrarsi e non rivelarsi disponibili, ben altra cosa se, coloro che sono tenuti ad intervenire
abbiano, a loro volta , delle oggettive difficoltà.
L’ indisponibilità dei soggetti tenuti a preoccuparsi può configurare una denuncia per abbandono di
incapace e può determinare l’emanazione di un decreto che ordinerà ai medesimi di contribuire in
termini economici; per contro se vi è impossibilità ( intesa come oggettivi problemi ) sussiste solo
e semplicemente la rete di assistenza sociale e nessun obbligo giuridico .
Senza voler declassare le norme , è ben evidente che ognuno risponde alla propria coscienza, ma in
una situazione di disagio, risulta fondamentale la rete sociale ovvero l’effettivo funzionamento dei
Servizi Sociali.
Se uno pensa ai problemi del settore “casa” le risposte sono immediate ed assimilabili.
Tali Servizi, infatti e purtroppo, funzionano molto diversamente a seconda della Regione di
residenza; l‘Italia non è tutta eguale e la tutela della Salute che ha rango costituzionale, non è
applicata con la stessa qualità in tutto il Territorio nazionale .
Indiscutibilmente le Regioni che offrono maggiore attenzione all’anziano sono il Trentino Alto Adige e
la Toscana.

Daniela Cavallini:
Rispetto all’anziano siamo sempre più abituati a sentir pronunciare i termini “Amministratore di
Sostegno”, “Tutore” e “Curatore”: professionalità che, seppur distinte, possono generare nei cd
“non addetti ai lavori”, confusione di ruoli. In buona sostanza, “chi fa cosa”?
Avv. Massimo Minuti:
L’amministrazione di sostegno è un istituto del nostro Ordinamento che agisce un gradino al
disotto dell’interdizione e dell’inabilitazione; è uno strumento molto duttile, che si adatta a
molteplici casi diversi tra Loro. Si potrebbe definire come una sorta di “stampella” che aiuta il
soggetto ; indistintamente che questo sia giovane o anziano . E’ uno strumento a tutela degli
anziani , ma anche di persone molto più giovani , portatrici di handicap oppure che hanno
qualche lieve ritardo evolutivo ( si pensi alle forme di autismo ), oppure si pensi a quelle persone (
e sono molte!) dedite al gioco che dilapidano i loro beni e non sono in grado di gestire il
patrimonio.
Insistendo in una metafora l’istituto è una “stampella” ma anche un “paraurti” al soggetto
beneficiario/controllato, che necessita di “aiuto” nel suo vivere quotidiano; ma, per ben
comprendere la figura dell’amministratore di Sostegno, detto A. D. S. si devono avere chiari i
punti fermi dell’interdizione ed dell’inabilitazione.
L’interdizione giudiziale è la dichiarata di incapacità di agire della persona maggiorenne che a causa
della sua abituale infermità di mente non è in grado di provvedere ai propri interessi, si ha la perdita
della capacità d’agire e la nomina di un tutore quale Suo rappresentante legale; le condizioni
mentali del soggetto sono stabilmente alterate . Quindi il soggetto non è in grado di provvedere ai
propri interessi; il soggetto, da un lato, diventando maggiorenne, dovrebbe acquisire la capacità di
agire, ma, di fatto, tale “progresso” è bloccato; gli atti negoziali sono pertanto compiuti in nome e
per conto dell’interdetto dal tutore, il quale ne amministra i beni ed ha la cura della sua persona.
Il tutore nei dieci giorni successivi alla nomina deve procedere all’inventario dei beni e nel contempo
deve avere l’autorizzazione del Giudice tutelare per : a) acquistare beni, eccettuati i mobili necessari
per l’uso del minore, per l’economia domestica; b) riscuotere capitali, c) accettare eredità o
rinunciarvi ; cosi come deve munirsi di autorizzazione per alienare beni, costituire pegni o ipoteche.
L’interdizione legale è, invece , lo stato di incapacità della persona dichiarata con Sentenza penale
tramite la quale la stessa persona è condannata per delitto non colposo alla reclusione per un
tempo non inferiore a 5 anni . Essa ha una funzione sanzionatoria, non è basata, come ben intuibile,
su problemi psichici , ma egualmente si arriva alla nomina del tutore, al pari dell’interdizione
giudiziale .
L’inabilitazione viene dichiarata quando la persona non sia in grado di provvedere ai propri
interessi ed è inferma di mente ma ad un livello non così grave da determinare l’interdizione .
Possono essere inabilitati anche coloro che per prodigalità o abuso abituale di alcolici o altro,
esponga il soggetto o la sua famiglia, ad un grave pregiudizio economico.
Possono essere inabilitati anche il sordomuto od il non vedente dalla nascita. Il sordomutismo e la
cecità dalla nascita sono causa di inabilitazione quando il soggetto non abbia ricevuto un’educazione
sufficiente che gli permetta di provvedere autonomamente ai propri affari.
Esposte le linee guida dell’interdizione, , si comprende che l’inabilitazione è un gradino al disotto ,
ma l’elemento caratteristico comune è l’infermità mentale ; poi si discende in uno spazio più ampio
più duttile ovvero all’amministrazione di sostegno; in altri termini, una volta esistevano
l’interdizione e l’inabilitazione, dal 2004 si è creata una terza figura, ovvero l’amministrazione di
sostegno e spesso, molteplici casi, che prima portavano all’inabilitazione, oggi generano la nomina
dell’amministratore di sostegno.
Al riguardo infatti l’art 418 C.C , stabilisce che nel corso del procedimento d’interdizione o
d’inabilitazione, se il Giudice ravvisa l’opportunità di non applicare tali provvedimenti bensì di
applicare l’amministrazione di sostegno, trasmette il fascicolo alla volontaria giurisdizione ovvero al
Giudice tutelare.
Tale istituto ha come fine quello di assicurare assistenza giuridica ad una persona che a causa di
menomazioni, psichiche o solo fisiche è nell’impossibilità parziale o temporanea di provvedere ai
propri interessi .
Quindi, come ben evidente, in questo istituto NON è’ essenziale il concetto d’infermità mentale; il
presupposto è uno stato di incapacità, che può essere solo fisico ed anche solo temporaneo;
insomma è uno strumento operativo più flessibile e più leggero.
Si potrebbe sostenere, con linguaggio colorito, che l’interdetto e l’inabilitato sono “marchiati”,
mentre, l’Amministrazione di sostegno, non genera tale risultato; per contro, è bene subito annotare
che, il Cancelliere, annota in appositi e registri e deve comunicare allo Stato civile, i soggetti che siano
sottoposti a qualsivoglia delle tre procedura (interdizione, inabilitazione o amministrazione di
sostegno).
Il giudice tutelare provvede entro 60 giorni dalla data della presentazione della richiesta alla
nomina dell’amministratore di sostegno, che deve giurare; lo stesso Giudice stabilisce l’oggetto
dell’incarico e gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere, nonché gli atti che il
beneficiario può compiere con l’assistenza dello stesso amministratore.
Solitamente si parla di ordinaria e straordinaria amministrazione, ma insisto, è uno strumento duttile
e pertanto possono crearsi “ordini” del Giudice , singolari e specifici , appositamente studiati per il
caso in esame.
A dimostrazione di una certa agilità si annoti che l’amministratore di sostegno può essere designato
dallo stesso interessato, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, in previsione di
una futura eventuale propria incapacità.
Gli stessi atti compiuti dall’amministratore di sostegno, al di fuori dei limiti dell’incarico sono
anch’essi annullabili e così, ancora una volta, emerge l’elasticità di questo strumento giuridico.
L’azione di annullamento si prescrive in cinque anni dal momento in cui è cessata l’amministrazione
di sostegno.
E’ evidente che certi passaggi meriterebbero maggiore approfondimento e le norme sono molto più
circostanziate , ma in un visione generale la conclusione concisa potrebbe essere questa:
l’interdizione e l’inabilitazione sono istituti che evidenziano l’assoluta incapacità o comunque la
rilevante incapacità psichica del soggetto che ha bisogno dell’intervento di un Terzo ( Tutore o
Curatore ); mentre nella nomina dell’A.D.S rientrano situazioni molto diversificate tra loro, il
soggetto beneficiato non viene necessariamente “cancellato”, egli ha una maggiore autonomia e
mantiene una maggior dignità.
Sia ben chiaro che A.D.S può essere nominato un coniuge od un figlio, ma nulla vieta che, pur in
presenza del coniuge o di numerosi figli, sia nominato A.D.S. una terza persona (spesso un avvocato)
magari proprio per l’esistenza di dissidi tra i figli.

Daniela Cavallini:
Una precisazione: Tutore e Curatore sono figure assimilabili o differenti?
Avv. Massimo Minuti:
Il Tutore ed il Curatore sono figure assimilabili, ovvero lo spirito è l’intervento tecnico ed umano a
favore di un distinto soggetto; questo vale anche per il ruolo dell’ADS. Tuttavia, mi sento di attribuire
un maggior valore al ruolo del TUTORE , in quanto il taglio delle risposte ha come riferimento
soggetti che hanno un problema nel relazionarsi con altri, ma non scordiamo che la figura per
eccellenza del Tutore sorge nel momento in cui, un minore che pur non avendo nessun problema
fisico o psichico, rimane, purtroppo, privo dei genitori! Si potrebbe quindi dire che siamo di fronte a
TRE ruoli tecnici, che possono essere assunti da parenti, cosi come da Professionisti, sempre con il
passaggio della nomina del Tribunale; ma nel ruolo del Tutore deve emergere un forte senso di
responsabilità, al pari di un genitore, che, quindi, non si preoccupa dei soli atti giuridici, bensì della
crescita, della cultura e dell’evoluzione del soggetto.

Daniela Cavallini:
Poiché, come spesso accade, i dissidi familiari costituiscono la maggiore fonte dei problemi, com’é
consigliabile agire nei confronti dell’anziano – mediamente bisognoso di cure – sia esso con
disponibilità economiche o meno, ma ostinatamente ribelle (praticamente ingestibile) verso gli
stessi familiari – peraltro magari in lite fra loro – che dovrebbero prendersi cura di lui?
Avv. Massimo Minuti:
Schematizzo un caso, che mi ha visto coinvolto, così di fatto offro la risposta : madre vedova, con
salute critica e con testa “altalenante”, tre figli; due dei quali residenti a pochi chilometri d
costo e poi rivalersi sul terzo fratello; ambedue non solo dissentivano, ma trasmettevano l’idea che
con il loro contributo economico – riferisco pedissequamente l’unanime affermazione – “non si
sarebbe andati da nessuna parte”.
Preso atto della situazione, mi attivavo dunque per comprendere se l’immobile era appetibile sul
mercato; verificato che ciò era fattibile, coinvolgevo i tre figli, offrendo a ciascuno di Loro la
possibilità di acquistare l’immobile della madre ad un prezzo inferiore di 40 mila euro rispetto al
valore di mercato; la loro risposta era negativa!
Quindi l’immobile veniva messo sul mercato , la signora anziana ,che recalcitrava ad accettare la casa
di riposo, veniva seguita da una Psicologa per favorire il cambiamento e dopo 2 mesi entrava in Casa
di riposo; l‘immobile veniva compravenduto (ovviamente a tal scopo il Giudice offriva il suo
benestare ), il ricavo della compravendita da qualche tempo è giacente in Banca e serve per
integrare il costo della Casa di Riposo ( costo che viene pagato in parte con la pensione , in parte
con l’invalidità, ed il resto appunto con le somme di “serbatoio“ incassate).
Conclusione: la Signora è ben seguita e curata, i fratelli non litigano, due di loro vanno
regolarmente a trovare la madre . Credo mi siano tutti e tre grati.
In sostanza, ho fatto quello che semplicemente – con logica – avrebbero dovuto fare loro, ma
giammai avrebbero raggiunto lo stesso risultato, sia per conflitti di carattere, sia per mancanza di
decisione, sia per il timore di uno spostamento della madre.
Seguendo il caso spiegato , immaginiamo ora che la casa non fosse stata di proprietà e la pensione
della madre fosse stata modesta .
Il potenziale A.D.S si sarebbe dovuto rivolgere ai servizi Sociali, chiedere una partecipazione
economica ai figli e comunque agire per il ricovero in Struttura.
L’ingresso in Struttura non è certo agevole ; molto spesso allorquando l’ A.D.S. è un figlio, il servizio
di Assistenza Sociale, attua una sorta di passo indietro, lascia che i parenti si diano da fare ; di fatto la
situazione è più complicata .
La Struttura di solito per l’accoglimento “vincola “ il figlio ad integrare la retta ed il figlio, per ovvio
amore, si trova con il portafoglio nei guai; conseguentemente è molto più conveniente che A.D.S
non sia un parente.
Il perché è comprensibile dalla Sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 22766 del 2016 la
quale ha sancito che: i famigliari degli anziani ricoverati presso le RSA, non sono tenuti al
pagamento della retta nel caso in cui l’anziano non sia in grado di pagarla, ma dovrà essere
corrisposta dall’ASL competente per territorio.
Quindi i contratti stipulati dai parenti dell’anziano con i quali gli stessi vengono vincolati al
pagamento della retta, possono essere dichiarati nulli!
Ed invece, a tutt’oggi, nella prassi, i parenti/figli sono “agganciati” e messi sotto pressione , partendo
dall’idea che Tutti farebbero qualsiasi cosa per una madre od un padre.
Attenzione però a non generalizzare , ovvero l’anziano che ha bisogno deve avere un reddito basso e
deve vivere da solo ; se invece è inserito e vive nel nucleo familiare di un figlio , chiaramente siamo in
una fattispecie diversa ove rileva la possibilità economica dell’intero nucleo.
In conclusione: se esistono possibilità economiche l’A.D.S è comunque colui che può essere utile
nella “gestione” oltreché nel superare certe situazioni familiari ; per inciso la Sua nomina libera i figli
dalla potenziale accusa di disinteresse; se invece sussiste una certa difficoltà economica l’A.D.S. è
colui che, agendo come cuscinetto, può intervenire con più forza verso le Strutture di assistenza,
senza essere monitorato o messo sotto pressione rispetto al suo portafoglio, cosa, che invece
accadrebbe se A.D.S. fosse un figlio.

Daniela Cavallini:
L’anziano “moderatamente problematico”, intendo affetto da una modesta forma di demenza
senile, può rifiutare l’ A.D.S. e/o le varie soluzioni sin qui esposte? Una sorta di “non voglio
nessuno lasciatemi in pace!”.
Avv. Massimo Minuti:
Inevitabilmente la risposta è articolata e deve essere esplicata caso per caso; in linea di massima con
una seppur iniziale demenza senile l’anziano non può opporsi e dovrà subire “piaccia o non
piaccia” quello che sarà meglio deciso per lui. Alla fine, nella vita, la logica offre le sue risposte
rigorose; si pensi ad una signora anziana seguita anche 24 ore su 24 da due badanti che si alternano
tra loro; se in ipotesi la Signora fosse allettata, dispiace per la Signora, ma il caso sarebbe più
controllabile, se invece la Signora è “stravagante e peperina”, basta un attimo per correre fuori di
casa od aprire il gas, mentre magari la badante è a comprare le medicine. In estrema sintesi, questa è
la mia modesta opinione: meglio un anziano in Casa di Riposo, ove i parenti vanno a trovarlo
ripetutamente, piuttosto che un figlio disposto a pagare due badanti, per non togliere l’anziano da
“casa” e poi, di fatto, si reca a trovare il genitore una volta a settimana come la “visita del dottore “.
Certo le strutture vanno scelte e controllate con cura, talune sono luogo di speculazione , ma siamo
Alle solite : un conto è ciò che è giusto, ben altra cosa l’esistenza di Strutture non all’altezza, che alla
base non dovrebbero avere le dovute autorizzazioni.

 

IL PROCESSO CIVILE –  Nozioni di base  e procedimento

Il presente post non ha valore altamente giuridico, ma è scritto per favorire la rottura del ghiaccio da parte di coloro che non sono addetti ai lavori. Lo spirito è informativo: è ben noto che l’Italia, pur con le Sue disfunzioni, è considerata la patria del diritto e del cavillo, quindi, sottolineato che le risposte non si trovano in internet, ma che, per contro, la “curiosità “ talvolta aiuta, offriamo uno sguardo d’insieme sul funzionamento del processo civile.

Il processo civile è lo strumento giuridico, regolato dalle norme di diritto processuale contenute per la maggior parte nel codice di procedura civile, utile a dirimere controversie che hanno ad oggetto questioni attinenti al diritto privato. Il diritto ad azionare la tutela giurisdizionale è garantito dal comma 1 dell’art. 24 della Costituzione, il quale afferma che Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”.

Il processo civile consta di tre fasi:

  1. la fase introduttiva;
  2. la trattazione ;
  3. la fase decisoria.

Il processo vede solitamente contrapporsi due parti:

  1. la persona, fisica o giuridica, che formula la domanda (ad esempio: una richiesta di risarcimento del danno);
  2. la persona, fisica o giuridica, nei cui confronti la domanda viene posta, ovvero la persona contro la quale la richiesta è diretta.

Le parti, ad  eccezione dei casi espressamente previsti dalla legge, non possono stare in giudizio personalmente, ma devono avvalersi dell’assistenza di un difensore munito di procura. Parte processuale può essere anche il Pubblico Ministero che esercita l’azione civile in alcuni casi specifici previsti dalla legge (per esempio:  nomina di curatore speciale; dichiarazione di morte presunta)

Il Giudice è soggetto terzo ed imparziale, ovvero colui che, tenuto conto delle motivazioni e/o prove poste a sostegno della domanda, delle difese e delle eccezioni,  decide il giudizio.

Le parti di un processo assumono denominazioni diverse a seconda della tipologia del processo stesso; nelle vertenze  introdotte  con atto di citazione le parti vengono identificate come attore e convenuto, mentre nei processi introdotti con ricorso  (ad esempio quelli in materia di lavoro) si usano le espressioni di ricorrente e resistente

Il processo di primo grado

Di  regola un processo inizia con la notifica alla persona nei cui confronti la domanda viene posta dell’atto introduttivo, atto di citazione o ricorso,  da parte di chi vuole far valere il proprio diritto.

Tuttavia,  in determinate materie, esiste una preclusione , ovvero NON si può semplicemente agire, ma  è  necessario esperire il procedimento di  mediazione prima di “dare il via allo scontro giudiziario ”.

Il procedimento di mediazione è  affidato ad Organismi abilitati allo scopo che, seguendo una certa dettagliata normativa, fungono da “paciere” con l’intento di risolvere in via stragiudiziale la controversia che sta per “scoppiare”. Bene ribadire che quello appena descritto è un passaggio obbligatorio per legge,  preliminare alla causa; si parla infatti di  condizione di procedibilità .

I casi nei quali  deve essere  sviluppato  obbligatoriamente il detto  procedimento di mediazione , sono in materia di: condominio, diritti reali (ossia proprietà, usufrutto, servitù etc. ), divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di azienda, risarcimento del danno derivante dalla circolazione dei veicoli e natanti, da responsabilità medica, e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari.

L’organismo di mediazione prescelto da colui che vuole dar corso alla causa, dopo un certo iter burocratico e con il versamento di una certa tariffa, designa il mediatore, cioè il Professionista  affidatario del caso, che convoca avanti a sé le parti con i rispettivi avvocati. Qualora la conciliazione si raggiunga, viene redatto un documento (c.d. processo verbale, sottoscritto dalle parti ) che costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica ed anche per iscrivere ipoteca; mentre in caso di mancato accordo, viene redatto un verbale negativo

I diversi  Giudici  per le tematiche civili

I giudici che hanno la competenza in primo grado sono il Tribunale ed  il Giudice di Pace.

Schematicamente è bene comprendere le specifiche cause che devono essere instaurate davanti il Giudice di Pace , di riflesso tutte le altre sono da instaurarsi davanti il Tribunale.

Il Giudice di Pace  è competente:

– per le cause relative a beni mobili di valore non superiore a euro 5.000 , quando dalla legge non sono attribuite alla competenza di altro giudice;

-per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti, purché il valore della controversia non superi euro 20.000.

– per tutti contrasti che indipendente dal valore della controversia hanno per oggetto   1)  cause relative ad apposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi; 2)  cause relative alla misura ed alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case; 3)  cause relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità; 4)  cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali.

Individuato il GIUDICE, occorre poi determinare quale sia lo specifico Giudice competente rispetto al  territorio nazionale (criterio di competenza orizzontale). La competenza per territorio, di norma, appartiene ad un solo ufficio giudiziario, solitamente quello del circondario all’interno del quale sussiste la residenza o la sede legale della persona fisica o persona giuridica convenuta; ma non mancano casi nei quali è possibile rivolgersi ad altro Giudice territoriale; ebbene in questi casi la parte che agisce può liberamente formalizzare la domanda davanti all’uno od all’altro ( più tecnicamente si parla di Fori concorrenti ).  Gli stessi criteri di competenza territoriale, in estrema sintesi, a volte sono tassativi e previsti dalla legge, mentre altre volte sono derogabili, anche per accordo delle stesse parti.

I diversi modi per instaurare una causa

Il processo civile ordinario può iniziare, come già detto,  con atto di citazione oppure con ricorso.  Alle differenze tra i due atti  si collegano differenze anche nell’iter procedimentale e nei termini  processuali . Soffermiamo la nostra attenzione sui procedimenti da svilupparsi davanti il Tribunale , tenendo presente che i meccanismi sono abbastanza simili davanti il Giudice di pace , tuttavia davanti quest’ultimo sussistono delle varianti che creano maggiore snellezza. Ciò precisato,  vediamo in sintesi i capisaldi dei due sistemi:

–  atto di citazione davanti il Tribunale

L’attore deve notificare al convenuto un atto, con il quale, appunto, cita in giudizio la controparte per vedere accogliere la propria domanda, specificando le sue richieste e chiedendone al giudice l’accoglimento. L’attore quindi, invita la controparte a presentarsi alla c.d. udienza di comparizione in Tribunale per discutere la causa (c.d. vocatio in ius). Il convenuto, dal canto suo, deposita in Cancelleria una comparsa di risposta, ossia un atto con il quale si difende da quanto richiesto dall’attore, prendendo posizione su tutte le questioni esposte nella citazione. Tra il giorno della notificazione dell’atto di citazione e la data fissata per l’udienza di comparizione devono intercorrere non meno di 90 giorni liberi (150 gg. se il luogo della notificazione si trova all’estero).

L’attore entro dieci giorni dalla notificazione deve costituirsi in giudizio  attraverso il deposito  in cancelleria della nota di iscrizione a ruolo, nonché dell’atto di citazione, preventivamente notificato alla controparte. Il convenuto deve costituirsi  almeno venti giorni prima dell’udienza fissata nell’atto di citazione  depositando in cancelleria la comparsa di risposta.

Subito dopo  l’iscrizione a ruolo del processo avviene la designazione del Giudice.

Le parti si trovano così  in prima udienza, ove, dopo alcune verifiche preliminari sulla regolare formazione del contraddittorio o dichiarata la contumacia della parte regolarmente citata e non comparsa, il Giudice, salvi problemi di competenza ( per territorio, materia e valore ) solitamente autorizza le parti, su loro richiesta, al deposito di memorie istruttorie (ossia atti  con i quali i rispettivi avvocati possono specificare e/o modificare entro certi limiti  quanto affermato negli atti introduttivi). le dette memorie solitamente sono tre e sono scadenzate nel tempo; una sorta di partita a “ping pong”.

Successivamente il Giudice espleta la vera  fase istruttoria, ovvero decide quali testi e quali documenti debbano avere ingresso nello scontro processuale. In questa fase si parla di testimonianze, perizie, consulenze tecniche, documenti, giuramenti.

il Giudice, quando ritiene conclusa  l’istruzione della causa, invita le parti a precisare le conclusioni, cioè a chiarire definitivamente le proprie richieste, anche alla luce di quanto emerso nel corso del procedimento. Questo è l’ultimo momento della trattazione della causa. Tuttavia, le stesse parti, di fatto, sviluppano le loro argomentazioni con le comparse conclusionali o, più precisamente, con una comparsa conclusionale da depositarsi entro 60 giorni dalla precisazione delle conclusioni  ed altra memoria di replica da depositarsi nei successivi 20 giorni . A differenza di tale meccanismo, specie ed allorquando la causa viene ritenuta di pronta decisione, le parti possono essere invitate ad una discussione orale.

– ricorso di lavoro davanti il Tribunale

La domanda proposta con ricorso è invece  depositata in cancelleria e poi notificata unitamente al decreto del Giudice con cui questi fissa l’udienza .

Infatti, allorquando il ricorso viene depositato, il Giudice, entro 5 giorni, deve fissare con decreto  l’udienza di discussione; lo stesso Giudice deve attivarsi in modo che l’udienza sia fissata entro il sessantesimo giorno dal deposito del detto ricorso. La  notifica, a cura del ricorrente, deve essere effettuata entro dieci giorni dalla data di pronuncia del decreto del Giudice .

Il ricorrente, una volta ricevuto l’atto, si costituisce depositando in cancelleria, almeno dieci giorni prima della udienza, la memoria di costituzione. Il rito del lavoro così come tutti gli altri procedimenti instaurati con ricorso, ha come caratteristica il fatto che la prima udienza è quella dove i contendenti devono giocare immediatamente le loro carte, ovvero è strutturata come una sorta di scontro immediato, durante il quale si potrebbe già addivenire alla totale discussione del caso.  Il giudice,  salvo quanto appena spiegato, attua sempre il tentativo di conciliazione. Se questa non avviene, proprio per quanto appena esposto, possono verificarsi due ipotesi: discussione e   decisione oppure passaggio ad una successiva udienza per l’assunzione dei mezzi di prova proposti.

Il Giudice pronuncia in udienza la sentenza  con cui definisce il giudizio, dando lettura del dispositivo ed esponendo le ragioni di fatto e di diritto della decisione. Successivamente  deposita la sentenza completa di motivazione ed, in caso di particolare complessità della controversia, fissa nel dispositivo un termine, non superiore a 60 giorni, per il deposito. Le sentenze emesse dal Tribunale in funzione di giudice del lavoro possono essere impugnate con ricorso avanti la Corte d’Appello territorialmente competente, anch’essa in funzione di giudice del lavoro . Le sentenze pronunciate dalla Corte di Appello sono a loro volta impugnabili attraverso il ricorso per Cassazione.

* * *

Alcune riflessioni sostanziali

  1. Lo sviluppo di un processo civile genera mediamente una sentenza di primo grado dopo 3 anni e mezzo; in alcuni Tribunali ritenuti più virtuosi (Torino, Trento e Udine) la sentenza  può giungere  in un tempo inferiore, di circa sei/otto  mesi   ;
  2. La grossa criticità del sistema è offerta dalle tempistiche del grado di appello; ovvero una sentenza di primo grado, allorquando viene impugnata può essere confermata , ma anche ribaltata, dopo un periodo di circa quattro anni; chiunque comprende la disfunzione ed anche il disagio sia economico sia psicologico delle parti in conflitto ;
  3. Il procedimento di mediazione, a cui abbiamo fatto riferimento sopra, “inventato” come strumento deflattivo, in verità , viene vissuto dagli addetti ai lavori con visioni del tutto contrapposte: i favorevoli i quali sostengono che tale strumento sia un metodo per migliorare la convivenza civile e l’umanità dei rapporti, i contrari secondo i quali un vero avvocato che fa l’interesse del Cliente non aveva e non ha bisogno del procedimento di mediazione, in quanto è tra le qualità del professionista soppesare preliminarmente , se e come convenga instaurare il giudizio ; conseguentemente tale meccanismo fa solo perdere ulteriori 4 /5 mesi di tempo.  Siamo di questa seconda opinione; forse è bene ricordare che altro identico tentativo era stato “inventato” nell’ambito  delle cause di lavoro, poi, in concreto , abbandonato e smentito dalla prassi dei Tribunali

 

 

 

 

 

 

PRINCIPI della SUCCESSIONE – CHI SONO I LEGITTIMARI?

L’art. 456 del codice civile stabilisce che: “la successione si apre al momento della morte , nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto”.

La successione mortis causa indica la vicenda traslativa dei diritti di una persona a seguito della sua morte; la morte estingue la capacità giuridica della persona ed i diritti ad essa inerenti cioè i diritti personali, mentre non si estinguono i diritti patrimoniali. Quindi la morte non è solo il presupposto necessario della successione ma è anche sua ragione giustificativa, perché si vuole dare un assetto ai diritti patrimoniali della persona a seguito della morte.

La successione può avere due sviluppi: a) legittima o intestata, cioè che ha luogo per legge quando manca in tutto o in parte il testamento; b) testamentaria quando il de cuius ha redatto testamento. E’ bene subito precisare che su tali due sviluppi interviene con effetti “limitativi” la successione necessaria, cioè il diritto che spetta agli stretti congiunti del defunto che pertanto possono anche incidere su precedenti disposizioni patrimoniali.

Gli stretti congiunti che hanno diritto ad una quota prevista per legge (detta anche quota indisponibile) del patrimonio del defunto si definiscono legittimari. Essi sono: il coniuge, i figli e gli ascendenti. Ai legittimari la legge riconosce una quota di valore della massa ereditaria fittiziamente formata dai beni dell’asse ereditario e dai beni donati in vita dal defunto. La somma dei beni relitti e dei beni donati si definisce massa. Per determinare la legittima spettante ai legittimari è necessario calcolare il valore dei  beni ereditari (relitti), cioè i beni appartenuti al defunto al tempo della morte; da questo valore si detrae l’ammontare dei debiti ereditari e si aggiunge il valore dei beni donati dal defunto. Il valore dei beni relitti e dei beni donati deve essere calcolato al tempo di apertura della successione.

La quota di legittima del coniuge è pari alla metà della massa se non vi sono figli; è di un terzo se assieme al coniuge concorre un figlio del defunto; è invece di un quarto se concorrono due o più figli; infine è della metà se concorrono assieme al coniuge ascendenti. Al coniuge, oltre al diritto alla quota di legittima, spetta anche il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare nonché il diritto di uso sui mobili. Presupposto di tali diritti è che si tratti di beni di proprietà del defunto o che il defunto aveva in comproprietà con il coniuge.

Se il genitore lascia un solo figlio, egli ha diritto alla metà della massa; se vi sono più figli essi hanno diritto complessivamente ai due terzi della massa.

Gli ascendenti, invece, hanno diritto alla legittima quando il defunto muore senza lasciare figli, né loro discendenti. In questo caso la quota è di un terzo, ma diviene pari ad un quarto qualora sia vivente il coniuge del defunto.

Per reintegrare il legittimario nella quota di legittima devono essere in primo luogo ridotte le disposizione testamentarie; sia quelle a titolo universale che quelle a titolo particolare. Se nonostante la riduzione delle disposizioni testamentarie il legittimario risultasse ancora leso nella sua quota di legittima, procederà alla riduzione delle donazioni dirette e indirette fatte dal defunto. Le donazioni si riducono col criterio cronologico, partendo dalla più recente e risalendo alla più antica, fino a soddisfare il diritto di legittima.

È bene rimarcare, anche se ovvio, la differenza tra le quote spettanti al coniuge e/o ai figli per successione legittima e le quote attribuibili agli stessi come legittimari. Sostanzialmente si può affermare che le quote dei “legittimari” siano una soglia “minima” di garanzia nei rapporti familiari.

A chiusura della legittima e della collegata azione di riduzione, l’art 557 c.c., così sancisce: l’azione di riduzione delle donazioni e delle disposizioni lesive della quota di legittima può essere proposta esclusivamente dai legittimari e dai loro eredi o aventi causa. Essi non possono rinunciare a questo diritto finché il donante è in vita, né con dichiarazione espressa, né prestando il loro assenso alla donazione. I donatari e i legatari non posso chiedere la riduzione, né profittarne, così come i creditori del defunto, purché il legittimario abbia accettato l’eredità con beneficio d’inventario.

Riti alternativi: APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI ( c.d Patteggiamento) e GIUDIZIO ABBREVIATO

Entrambi i procedimenti rispondono all’esigenza di snellire il corso del processo permettendone una chiusura anticipata, subordinata alla scelta volontaria di una o di entrambe le parti processuali.

Di seguito si sintetizzano gli elementi essenziali degli istituti in esame.

A) L’ applicazione della pena su richiesta delle parti, o patteggiamento, consiste in un accordo tra imputato e pubblico ministero circa l’entità della pena da irrogare, ovvero in una rinuncia da parte dell’imputato a contestare l’accusa.

L’istituto è disciplinato dagli artt. 444 e ss. c.p.p.

Ai sensi del primo comma dell’art. 444: “L’imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l’applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria”.

Il patteggiamento, dunque, è ammesso solo entro determinati limiti e non è applicabile per tutti i reati ; restano infatti esclusi dal patteggiamento i procedimenti aventi ad oggetto i delitti di prostituzione minorile, pornografia minorile e violenza sessuale di gruppo ; nonchè tutti i procedimenti a carico di soggetti  dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza o recidivi  qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria. In altre fattispecie  per esempio : peculato o concussione, la richiesta di patteggiamento è ammissibile solo se sono stati integralmente restituiti il prezzo o il profitto del reato.

L’esperibilità del procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti necessita dell’accordo delle parti; si noti, tuttavia, che il dissenso (motivato) del P.M. non impedisce tout court l’applicabilità della riduzione di pena, allorquando il Giudice lo ritenga ingiustificato. Al contrario, il dissenso dell’imputato rispetto alla proposta unilaterale di patteggiamento formulata dal P.M. non è sindacabile. L’accordo, dunque, è condizione necessaria, ma non sufficiente: la legge infatti impone al Giudice di verificare i presupposti di applicabilità dell’intesa, ovvero la correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell’applicazione e della comparazione delle circostanze prospettate dalla parti, la congruità della pena indicata e, in ogni caso, l’assenza di una potenziale sentenza di proscioglimento dell’imputato ai sensi dell’art. 129 c.p.p.

L’ultimo comma dell’art. 444 cpp prevede anche la possibilità per la parte che formula la richiesta di patteggiamento di “subordinarne l’efficacia alla concessione della sospensione condizionale della pena”. Qualora il giudice ritenga che la sospensione condizionale non possa essere concessa, rigetta la richiesta.

Alla scelta dell’imputato di rinunciare al diritto alla prova, nonché al diritto di controvertere sul fatto e sulla qualificazione giuridica dello stesso fanno da contrappeso alcuni vantaggi premiali: 1. sconto di pena; 2. assenza di effetti pregiudizievoli della sentenza che applica la pena concordata; 3. la sentenza di patteggiamento non è vincolante per il giudice civile ma può essere da quest’ultimo liberamente valutata in un quadro di probatorio più ampio ai sensi dell’art. 116 c.p.c.

In sostanza, il delitto o la contravvenzione oggetto di patteggiamento si estinguono rispettivamente trascorsi cinque anni o trascorsi due anni con cessazione di ogni effetto penale, e, in caso di pena pecuniaria o sostitutiva, senza effetto per la successiva sospensione condizionale della pena ; ovvero il sistema esige che in tale termine temporale l’imputato  non debba commettere altro delitto, o contravvenzione, della stessa indole,

Il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza.  La Suprema Corte, recentemente, proprio in tema di ricorribilità per Cassazione della sentenza di patteggiamento,  ha stabilito che il ricorso per Cassazione fondato sull’erronea qualificazione giuridica del fatto contestato deve essere limitato al solo caso di “errore manifesto” ;  al contrario,  non è valido motivo di impugnazione della sentenza di patteggiamento tutte le volte in cui presenti margine di opinabilità. Così Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 25 agosto 2017 n. 39441

B) Il rito abbreviato è un procedimento speciale deflattivo del dibattimento, attraverso il quale  il Giudice del processo decide sulla base degli elementi contenuti nel fascicolo del PM, senza una particolare attività istruttoria ;  più precisamente – ai sensi degli   438 e ss. c.p.p. sussistono due strade alternative, rimesse alla libera scelta dell’imputato:

  1. La c.d. richiesta semplice, con la quale l’imputato chiede che il processo sia definito allo stato degli atti, obbliga il PM a prenderne atto e il Giudice a disporre con ordinanza la trasformazione del rito dopo un controllo meramente formale dell’atto di parte.
  2. La c.d. richiesta complessa implica, invece, che l’imputato nel richiedere il giudizio abbreviato ponga come condizione che siano assunti taluni mezzi di prova. Il giudice, attuando un controllo di ammissibilità, ammetterà il rito qualora l’integrazione richiesta sia necessaria ai fini della decisione e di indispensabile supporto logico-valutativo, ma anche compatibile con le finalità di economia processuale del procedimento sulla scorta degli atti acquisiti ed utilizzabili. Il PM potrà chiedere ed ottenere l’ammissione di prova contraria. In caso di rigetto da parte del giudice della richiesta condizionata, la stessa potrà essere riproposta sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.

La disciplina del giudizio abbreviato è stata oggetto di consistenti modifiche disposte con la c.d. Riforma Orlando (legge n. 103/2017) ; in particolare, oggi, con la sentenza di condanna il giudice riduce la pena da irrogare in concreto  di un terzo per i delitti  e della metà per le contravvenzioni.

Non solo! Sulle contravvenzioni è già intervenuta la Suprema Corte  affermando il principio secondo il quale il detto beneficio può essere applicato retroattivamente (vedasi Cassazione IV sezione penale, sentenza n. 832/2018 )

Tra le numerose novità, importante la previsione dell’esclusione del rito abbreviato quando si procede per delitti per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo. Nel caso di procedimenti avviati per questi reati,  l’imputato potrà comunque chiedere l’accesso al giudizio speciale, anche se dovrà subordinare la richiesta a una diversa qualificazione del fatto, facendo riferimento a un reato per il quale la legge non prevede l’ergastolo e chiedendo di derubricare l’imputazione formulata dal Pm di modo da poter poi accedere al rito abbreviato e al conseguente sconto di pena.

 

 

 

Resistenza a Pubblico Ufficiale

Ai sensi dell’art. 337 c.p., questa è la definizione del delitto di Resistenza a Pubblico Ufficiale: “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.

La norma in esame si colloca nell’alveo dei c.d.  reati plurioffensivi in quanto  finalizzata, da un lato,  alla tutela della libertà di azione del pubblico ufficiale, ovvero a garantire a quest’ultimo di esplicare la propria attività senza trovare ostacolo in forme di coazione fisica o morale posta in essere con l’ intento di impedirne il pieno esercizio, e, dall’altro al corretto funzionamento dell’attività della Pubblica Amministrazione.  In ordine al rapporto intercorrente tra i due beni giuridici, la Corte Costituzionale, con Sentenza del 27 dicembre 1996, n. 425, ha precisato che: “nel reato di resistenza non viene in preminente considerazione il diritto personale del cittadino investito di pubblica funzione al rispetto della propria dignità e libertà privata, bensì il diritto dovere della stessa pubblica amministrazione di non subire intralci nell’assolvimento dei suoi compiti”.

L’atto di resistenza deve concretizzarsi nella coscienza e volontà dell’agente di usare violenza o minaccia per opporsi al soggetti tutelati nel compimento dell’atto d’ufficio. Il dolo richiesto è infatti specifico: l’agente deve voler ostacolare l’attività del pubblico ufficiale.

La violenza o minaccia devono accompagnare e non anticipare il compimento dell’atto e devono essere idonee a costituire un impedimento concreto per l’esercizio del pubblico ufficio, ovvero devono essere reali e connotarsi in termini di effettività causale a coartare o ad ostacolare l’agire del pubblico ufficiale.

Si noti che non è  tuttavia necessario che la violenza o la minaccia siano usate direttamente sulla persona del pubblico ufficiale, con la conseguenza che è sufficiente anche la sola  violenza sulle cose, idonea ad ostacolare o turbare il compimento dell’atto.

Discusso è il problema che riguarda la c.d. fuga; è pacifico che la semplice fuga a piedi non possa mai configurare il reato in esame, in quanto in essa non è ravvisabile né violenza né minaccia, ma il reato è integrato allorquando la fuga sia stata agevolata da “spintoni” che il soggetto dà all’agente di polizia al fine di divincolarsi. Esemplificando, costituiscono resistenza a pubblico ufficiale: la fuga in auto per forzare un posto di blocco; la fuga in auto attuata con fulminei testa-coda per costringere gli inseguitori a manovre ritardatrici onde evitare l’urto; la fuga in auto attuata con modalità tali da porre in pericolo l’incolumità degli inseguitori.

Diverso il caso della c.d. resistenza passiva che in quanto negazione di qualunque forma di violenza o di minaccia rimane al di fuori della previsione legislativa: così Cass., sez. VI, n. 7061/1996.

Si differenzia dalla c.d. resistenza passiva la c.d. resistenza impropria, ovvero quella violenza che si riverbera negativamente sull’esplicazione della funzione pubblica, pur non aggredendo in modo diretto il pubblico ufficiale, impedendolo o comunque  ostacolandolo. Per la Cassazione la resistenza passiva è definibile  come qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione e viene posta in essere attraverso l’uso di mezzi anomali, cose o atti autolesionistici, diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (Cassazione penale, Sez. V, ottobre 2015 n. 48346).

Riflettendo sul vivere quotidiano, nasce spontaneo un interrogativo:

qualora l’agente, con una sola azione usi violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o a più incaricati di pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio, la sua violenza deve considerarsi come l’integrazione di più reati di cui all’art. 337 c.p. in continuazione o come un unico reato?

Con ordinanza del 12/12/2017 è stata disposta la rimessione alle Sezioni Unite Penali della questione, sussistendo in materia un contrasto giurisprudenziale.

Secondo la giurisprudenza più risalente infatti, si ha continuazione di reati in quanto la resistenza, pur ledendo unitariamente il pubblico interesse alla tutela del normale funzionamento della pubblica funzione, si risolve in distinte offese al libero espletamento dell’attività funzionale di ciascun pubblico ufficiale.

Più recentemente invece si è affermata l’unicità del reato, fondando la tesi sulla formulazione del dato letterale dell’art. 337 c.p. che pone quale obiettivo della condotta criminosa l’opposizione all’atto piuttosto che la violenza o minaccia nei confronti del singolo in quanto tale.  Secondo l’impostazione se si considerassero più fattispecie criminose, si perderebbe di vista il bene oggetto della salvaguardia e per giunta sarebbe necessario considerare e ravvisare l’atteggiamento psicologico richiesto dalla norma nei confronti di ciascuna persona distintamente considerata.

***

Si sottolinea, infine, che nei  casi di abuso, il codice penale prevede la non punibilità del soggetto che abbia reagito ad un sopruso. In particolare l’art. 1, 9° comma, della legge 94/2009, recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, ha introdotto nel nostro Ordinamento un causa di non punibilità, ossia la c.d. legittima reazione dei cittadini agli atti arbitrari dei pubblici ufficiali. La  norma, confluita nell’art. 393-bis del codice penale, statuisce il legittimo diritto del cittadino a reagire agli abusi dell’Autorità. Si pensi ai reati di violenza, minaccia, resistenza a un pubblico ufficiale, ma anche di violenza o minaccia a un corpo politico, all’Autorità Giudiziaria, ecc.; in questi casi la condotta del cittadino non è punibile se è la reazione ad un abuso della stessa Autorità: “Non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 341 bis, 342 e 343 quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari  i limiti delle sue attribuzioni.

La norma in questione, dunque, statuisce che, nelle ipotesi suddette, il cittadino sia scriminato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato del pubblico servizio (ovvero il pubblico impiegato) abbiano dato causa alla sua condotta illecita. L’esimente non è di poco conto e ha trovato applicazione in molti casi. E’ stata, ad esempio, riconosciuta legittima la reazione di un cittadino agli atti arbitrari di un poliziotto che voleva perquisirlo senza che vi fossero gli elementi obiettivi e normativi idonei a giustificare la perquisizione (Cass. pen. Sez. VI, 14-04-2011, n. 18841); altrettanto giustificata è stata ritenuta la resistenza di un cittadino ad un pubblico ufficiale che, illecitamente, voleva tradurlo in Caserma (in difetto dei presupposti previsti dalla legge). In conclusione, rispetto del ruolo e del lavoro del pubblico ufficiale, ma legittimo resistere in caso di abuso!

 

 

Suprema Corte di Cassazione: alcune recenti Massime

Si offrono alcune interessanti pronunce della Suprema Corte di Cassazione.

Licenziamento

forma e la comunicazione. Per Cass., Sez. L., n. 12106/2017  la scrittura con la quale sia intimato il licenziamento può ritenersi valida, anche quando non venga sottoscritta dal datore di lavoro o da un suo rappresentante, qualora venga esibita dalla parte nel giudizio pendente nei confronti del destinatario del recesso.

consegna dell’atto di licenziamento nell’ambito del luogo di lavoro. Per Cass., Sez. L, n. 18661/2017, il rifiuto del destinatario di ricevere l’atto in questione non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta, trattandosi di un atto unilaterale recettizio, che non sfugge al principio generale per cui il rifiuto della prestazione da parte del destinatario non può risolversi a danno dell’obbligato e alla regola della presunzione di conoscenza dell’atto desumibile dall’art. 1335 c.c. Per Cass., Sez. L, n. 08136/2017, non rileva il momento in cui è maturato il proposito di licenziare il dipendente, né l’eventuale esternazione dell’atto a terzi, ma è necessario che l’intento negoziale si traduca in un atto giuridico diretto alla persona nella cui sfera giuridica è destinato a produrre effetti. La S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato successivamente alla presentazione delle giustificazioni ed irrilevante che, in epoca antecedente alle stesse, il lavoratore fosse venuto fortuitamente a conoscenza della volontà aziendale di recedere dal rapporto in virtù di un messaggio di posta elettronica indirizzato solo ad un terzo.

potere di qualificazione del giudice delle ragioni del licenziamento. Per Cass., Sez. L, n. 07687/2017, la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione di impugnativa, che resta circoscritta all’atto e non è idonea a estendere l’oggetto del processo al rapporto, non essendo equiparabile all’azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati; ne consegue che il giudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte.

ipotesi costituenti, o meno, giusta causa (o giustificato motivo soggettivo) di licenziamento. Secondo Cass Sez. L, n. 22375/2017, la condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria competente fatti di reato commessi dal datore di lavoro non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell’illecito, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti. È di per sé sola irrilevante, in quanto non sufficiente a dimostrarne il carattere calunnioso, la circostanza che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito con l’archiviazione della notitia criminis o con la sentenza di assoluzione; né in tali ipotesi, a differenza di quelle di esercizio del diritto di critica, rilevano i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio.

Per Cass., Sez. L, n. 07795/2017 è atto di insubordinazione, suscettibile di legittimare il licenziamento, l’ingerenza indebita della lavoratrice nell’organizzazione aziendale, manifestatasi nell’imposizione ai dipendenti di direttive, non discusse né concordate con la direzione aziendale, con modalità comportamentali dirette a contestare pubblicamente il potere direttivo del datore di lavoro.

Per Cass., Sez. L, n. 08816/2017 la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro. Nella specie, la S.C., confermando la sentenza impugnata, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un tecnico addetto alla manovra dei treni, il quale, durante il turno di lavoro, si era impossessato di circa venti litri di gasolio, prelevati dal carrello che conduceva.

Risarcimento del danno

responsabilità da cose in custodia. Per Cass. Civ, n. 2480/2018 è esclusa la responsabilità da cose in custodia in capo all’ente proprietario e gestore della strada, munita di guardrail di altezza a norma di legge, per i danni patiti dal superamento del medesimo da parte del conducente di un veicolo che ne aveva, per causa ignota, perso il controllo, non potendo il custode rispondere dei danni cagionati in via esclusiva dal danneggiato da qualificarsi oggettivamente non prevedibile.

responsabilità da cose in custodia e caso fortuito. Per Cass. Civ., n. 2479/2018 l’individuazione di una condotta colposa del danneggiato non consente di ritenere per ciò stesso integrato il caso fortuito, ove non emerga che sia risultato interrotto qualunque nesso causale fra la cosa in custodia e l’evento.

Per Cass. Civ., n. 2477/2018 il caso fortuito rappresentato da un fatto naturale o del terzo è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però dal punto di vista oggettivo e della regolarità causale, senza che possa riconoscersi alcuna rilevanza alla diligenza o meno del custode. le modifiche della struttura della cosa o le situazioni di pericolo determinate da fattori imprevedibili sono suscettibili di divenire, se non rimosse tempestivamente, nuove condizioni intrinseche della csa, idonee a comportare la responsabilità del custode.

danno morale. Per Cass. Civ., n. 1906/2018 è ammesso il risarcimento del danno morale per il consigliere comunale che, dopo essere stato regolarmente eletto, non ha potuto esercitare la carica perché il comune sbagliando ha deliberato che si trovasse in una condizione di incompatibilità.

responsabilità del vettore e onere della prova. Per Cass. Civ., n. 1584/2018 il passeggero che agisca per il risarcimento del danno derivante dal negato imbarco o dalla cancellazione (inadempimento) o dal ritardato arrivo dell’aeromobile rispetto all’orario previsto(inesatto adempimento) deve fornire la prova della fonte del suo diritto e il relativo termine di scadenza, ossia deve produrre il titolo o il biglietto di viaggio o altra prova equipollente, potendosi poi limitare alla mera allegazione dell’inadempimento del vettore. Spetta a quest’ultimo convenuto in giudizio dimostrare l’avvenuto adempimento oppure che in caso di ritardo, questo sia stato contenuto sotto le soglie di rilevanza. Per Cass. Civ., n.702/2018 in caso di smarrimento e furto della merce spedita, il mittente che domandi al vettore il risarcimento del danno deve unicamente provare la perdita del carico ed il relativo valore, ma non anche di aver indennizzato il destinatario della merce per mancato arrivo

 

Videosorveglianza nei luoghi di lavoro

La videosorveglianza nei luoghi di lavoro è tema dibattuto ed attuale rispetto al quale appare forte la tensione con il diritto alla privacy; tensione che esige regolamentazione dettagliata delle modalità di effettuazione; nonché dell’ammissione nel processo dei corrispondenti risultati. Durante gli ultimi anni la normativa in materia di sorveglianza e videosorveglianza nei luoghi di lavoro ha subito alcuni mutamenti: se da un lato il decreto attuativo del c.d. Jobs Act (D. Lgs. n. 151/2015) ha modificato l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori in materia, dall’altro, la giurisprudenza, con la sentenza Corte di Cassazione, Sezione II Penale, 30 gennaio 2018, n. 4367 torna ad occuparsi di tali temi, ovvero  della utilizzabilità di dette riprese nel processo penale.

Il caso processuale:  con sentenza del 2011 il Tribunale di Verbania  dichiarava una lavoratrice subordinata responsabile del reato di appropriazione indebita e, per l’effetto, la condannava alla pena di mesi 6 di reclusione. Avverso tale pronunzia l’imputata proponeva  appello avanti la Corte d’appello di Torino che, con sentenza del 2017, esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 7 del c.p. ed effettuata la riduzione per la scelta del rito abbreviato, rideterminava la pena inflitta in mesi 3 di reclusione. Nell’adire la Suprema Corte l’imputata deduceva, oltre a  vizi motivazionali, l’inutilizzabilità delle immagini captate con il sistema di videosorveglianza.

La Corte di Cassazione nel dichiarare il ricorso inammissibile, mediante la citata sentenza n. 4367/2018, torna a sottolineare quello che ormai può affermarsi essere principio consolidato : “sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all’interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori”.

Per la Corte dunque sono da ritenersi legittime ed utilizzabili le videoriprese effettuate nei luoghi di lavoro; ma  cosa si intende per videoriprese e qual è la disciplina applicabile in materia?

Il tema impone un’analisi incrociata tra il sistema giuslavoristico e quello processuale penale.

Con il termine videoriprese ci si riferisce alla registrazione, mediante strumenti di captazione visiva, di quanto accade in un luogo. Sebbene il codice di procedura penale non le menzioni tra gli strumenti investigativi, la giurisprudenza di legittimità ha più volte specificato come i risultati delle videoriprese effettuate dal datore di lavoro per tutelare propri beni aziendali possano fare ingresso nel processo come documenti acquisibili in dibattimento ex art. 234 c.p.p., ovvero  la rappresentazione di fatti, persone o cose effettuata al di fuori del procedimento. Per quanto riguarda i  limiti all’acquisizione viene  qui in rilievo l’art. 4 l. 300/1970. il D.Lgs n. 151/2015, attuativo di una delle deleghe contenute nel c.d. Jobs Act, modifica e riformula tale norma dettata proprio in materia di videosorveglianza. La riscrittura dell’articolo 4 contempera le esigenze organizzative e produttive aziendali, al diritto del lavoratore a che lo svolgimento delle sua attività non sia sottoposta al controllo a distanza da parte del datore di lavoro.

Ai sensi del novellato art. 4 “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi”.

Dunque, fermo il previgente divieto di controllare la sola prestazione lavorativa dei dipendenti, il nuovo comma 1 dell’art. 4 elenca le ragioni giustificatrici che consentono al datore di l’utilizzo di strumenti di videoripresa:

  • esigenze organizzative e produttive 
  • sicurezza del lavoro
  • tutela del patrimonio aziendale                                                                                                          

L’aspetto innovativo della norma è l’inserimento, tra i requisiti oggettivi, della tutela del patrimonio aziendale.                          Il Garante per la Privacy ha altresì provveduto a specificare che l’uso di impianti di videosorveglianza deve ritenersi ammesso per diverse finalità legittime che includono  la tutela dei beni aziendali e l’acquisizione di prove, purché ciò non determini un’ingerenza ingiustificata nei diritti e nelle libertà delle persone.                                                                                                       La giurisprudenza penale, dal canto suo, ha sostanzialmente ritenuto dette videoriprese utilizzabili a fini probatori nel processo penale. La  ratio si sostanzia nel principio della prevalenza dell’ interesse pubblico alla prevenzione ed accertamento dei reati rispetto alla riservatezza dei dipendenti. La Suprema Corte ha ritenuto dirimenti le finalità perseguite dal datore nell’installare gli impianti di ripresa visiva: in particolare, si afferma, sono utilizzabili nel processo penale le videoriprese effettuate con telecamere installate nei luoghi di lavoro per accertare comportamenti potenzialmente delittuosi perché le norme dello Statuto dei lavoratori, poste a presidio della loro riservatezza, non fanno divieto dei cosiddetti “controlli difensivi” del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio.

In conclusione, per quanto riguarda i  controlli difensivi: se è vero  che l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, seppure con le modifiche introdotte dal c.d. Jobs Act, continua a proibire l’uso di telecamere per il controllo a distanza dei lavoratori, è altrettanto vero che lo stesso articolo permette l’installazione di un sistema di videosorveglianza laddove il datore di lavoro sospetti una condotta illecita da parte del dipendente. In altre parole l’animus deve essere volto non al controllo a distanza dei dipendenti nello svolgimento delle loro mansioni, bensì all’ottenere la conferma dell’attività illecita e quindi, di conseguenza,  a difendere il patrimonio aziendale.

 

Revoca giudiziale amministratore condominiale: serve il procedimento stragiudiziale di mediazione?

Quale premessa, si deve sottolineare che la revoca giudiziale di un amministratore di Condominio è caso raro, essendo prevalente la revoca per decisione assembleare. Il caso che qui esaminiamo serve per riflettere sul come certi istituti stragiudiziali ( mediazione e negoziazione assistita ), ideati dal Legislatore per “diminuire “ il contenzioso, in verità siano elemento di “rallentamento” e fonte di pericolo  a carico di chi vuol far valere le sue ragioni.

Il Tribunale di Palermo,  in data 6 maggio 2016, dichiarava improcedibile una domanda di revoca giudiziale di un amministratore di Condominio in quanto la ricorrente non aveva partecipato  all’incontro davanti al mediatore agli effetti del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28.

Al riguardo è bene ricordare che il  procedimento di revoca giudiziale dell’amministratore di condominio:

  • riveste un carattere eccezionale ed urgente (oltre che sostitutivo della volontà assembleare);
  • è ispirato dall’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela ad una corretta gestione; dell’amministrazione condominiale (a fronte del pericolo di grave danno derivante da determinate condotte dell’amministratore);
  • è perciò improntato a celerità, informalità ed ufficiosità;
  • non riveste alcuna efficacia decisoria e lascia salva al mandatario revocato la facoltà di chiedere la tutela giurisdizionale del diritto provvisoriamente inciso (facendo valere le sue ragioni attraverso un processo a cognizione piena).

La stessa ricorrente impugnava la decisione del Tribunale di Palermo e la Corte d’Appello di Palermo, con decreto del 29 luglio 2016, rigettava  il reclamo proposto.

La Signora, particolarmente tenace, si rivolgeva alla Suprema Corte di Cassazione  ed impugnava il decreto della Corte d’Appello sostenendo che:

  1.  il decreto impugnato ha natura di sentenza;
  2.  il procedimento di revoca dell’amministratore di condominio non soggiace all’istituto della mediazione obbligatoria.

La Suprema Corte (Cass. Civile, sez. VI-2, ordinanza 18/01/2018 n° 1237), così stabiliva:  “ è inammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso il decreto con il quale la corte di appello provvede sul reclamo avverso il decreto del tribunale in tema di revoca dell’amministratore di condominio, previsto dall’art. 1129 c.c., e art. 64 disp. att. c.c., trattandosi di provvedimento di volontaria giurisdizione; tale ricorso è, invece, ammissibile soltanto avverso la statuizione relativa alla condanna al pagamento delle spese del procedimento, concernendo posizioni giuridiche soggettive di debito e credito discendenti da un rapporto obbligatorio autonomo (Cass. Sez. 6 – 2, 23/06/2017, n. 15706; Cass. Sez. 6 – 2, 11/04/2017, n. 9348; Cass. Sez. 6 – 2, 27/02/2012, n. 2986; Cass. Sez. 6 – 2, 01/07/2011, n. 14524; Cass. Sez. U, 29/10/2004, n. 20957)”

In sintesi , secondo il Tribunale e la Corte palermitana, il procedimento di mediazione obbligatoria è applicabile anche al giudizio di revoca dell’amministratore di condominio, nonostante si tratti di procedimento in camera di consiglio.

Qualcosa non quadra!

Il giudizio di revoca dell’amministratore di condominio è un procedimento camerale plurilaterale tipico. Se è vero che l’art. 71 quater disp. att. c.c. precisa che per “controversie in materia di condominio”, ai sensi dell’art. 5, d.lgs. 28/2010, si intendono, tra le altre, quelle degli artt. da 61 a 72 disp. att. c.c. (tra cui vi è quindi anche l’art. 64 disp. att. c.c. relativo alla revoca dell’amministratore); per contro, l’art. 5, comma 4, lett. f, d.lgs. 28/2010 è inequivoco nel disporre che il meccanismo della condizione di procedibilità relativo al tentativo di mediazione obbligatoria  non si applica ai procedimenti in camera di consiglio .

La Suprema Corte non offre risposta a tale contrasto, rimarcando che il decreto con il quale la Corte d’appello provvede sul reclamo avverso il decreto del Tribunale in tema di revoca dell’amministratore di condominio (art. 1129 c.c. e art. 64 disp. att. c.c.), costituisce un  provvedimento di volontaria giurisdizione e, pertanto, è inammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.

In particolare la Suprema Corte spiega che il Decreto della Corte palermitana:

  • non costituisce “sentenza”, ai fini ed agli effetti di cui all’art. 111 Cost., comma 7;
  • è sprovvisto dei richiesti caratteri della definitività e decisorietà;
  • non contiene alcun giudizio in merito ai fatti controversi;
  • “non pregiudica il diritto del condomino ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, né il diritto dell’amministratore allo svolgimento del suo incarico”;
  • trattasi di provvedimento non suscettibile di acquisire forza di giudicato;
  • non rileva in senso contrario la motivazione del ritenuto ostacolo pregiudiziale all’esame della domanda giudiziale: ciò in quanto la pronuncia di improcedibilità, comunque motivata, resta pur sempre inserita in un provvedimento non decisorio sul rapporto sostanziale e non impugnabile, e, pertanto, non può costituire autonomo oggetto di impugnazione.

In conclusione, la Cassazione  evidenzia la difficoltà interpretativa, scaturente dalla lettura degli artt. 71 quater disp. att. c.c. e 5, comma 4, lett. f), d.lgs. 28/2010, in merito alla questione dell’assoggettabilità del giudizio di revoca dell’amministratore di condominio all’obbligatorietà della mediazione, ma non prende esplicita posizione.

Quali sono le riflessioni finali?

1 ) la Signora magari nella sostanza aveva ragione, ma per un difetto procedurale ( assenza della mediazione ) è risultata soccombente senza riuscire ad entrare nel merito del rapporto;

2) la Signora ed il suo avvocato , a nostro  avviso , hanno perfettamente ragione nel sostenere  che il procedimento stragiudiziale di mediazione non era necessario;

3) a seguito della prima Sentenza del Tribunale di Palermo era, forse, meglio mollare l’osso,  ma certamente è facile dirlo a posteriori;

4) nel sistema del “cavillo” italiano , non si può mai dare nulla per scontato e pertanto, qualora sussista  un dubbio operativo/ procedurale, il caso ne è la riprova, è meglio fare anche ciò che appare illogico.

Il contrasto interpretativo ancora irrisolto non può che mettere in guardia tutti gli addetti ai lavori.

Chi porta a spasso il cane, non proprietario, e’ responsabile dei danni cagionati a terzi?

Questo il fatto: una Signora in località Pordenone, in prossimità dei giardini pubblici, alla guida della propria bicicletta, nella pista ciclopedonale, in seguito all’improvviso attraversamento di un cane di razza Schnauzer, perdeva l’equilibrio e cadeva rovinosamente a terra. Il cane, tenuto al guinzaglio dal figlio della proprietaria dell’animale, sfuggiva improvvisamente per inseguire un gatto ed impattava violentemente contro la bicicletta della Signora.

La danneggiata citava in giudizio la proprietaria dell’animale per richiedere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, in quanto la stessa aveva riportato: una frattura in corrispondenza dell’orbita oculare destra, una vasta ferita nella zona sopraccigliare destra e la frattura del gomito, lesioni quindi all’integrità fisica che avevano determinato dei postumi permanenti.

La convenuta costituitasi in giudizio, sosteneva di non essere responsabile per i danni subiti dall’attrice, in quanto quella mattina il cane era stato portato fuori dal figlio. Veniva chiamata in giudizio la compagnia assicuratrice, la quale sosteneva  l’inoperatività della polizza, poiché la stessa polizza  era stata stipulata dalla figlia della proprietaria del cane, mentre, nel momento del sinistro, l’animale era sotto la custodia del fratello, per inciso, non convivente con la sorella. Nel contempo la stessa compagnia assicuratrice chiamava in causa il figlio, per essere esonerata da quanto dovesse rifondere in termini di risarcimento in caso di condanna.

I passaggi dell’istruttoria permettevano confermare: 1) che l’attrice verso le 8.10 del mattino, mentre percorreva la pista ciclopedonale, era caduta ed aveva riportato lesioni; 2) che in quello stesso momento, nel luogo del sinistro si trovava il convenuto a passeggio con il proprio cane libero dal guinzaglio; 3) che il convenuto prestava aiuto all’attrice e l’ accompagnava al Pronto soccorso ; 4) che il cane Schnauzer  aveva tagliato la strada alla ciclista finendo contro la stessa bicicletta, sfuggendo dal controllo per inseguire un gatto.

Si tratta ora di rispondere al quesito; ovvero di stabilire se sia responsabile la proprietaria, se debba rispondere la Compagnia assicurativa o se la responsabilità sia da attribuire in maniera diversa.

Il Tribunale di Pordenone , sul caso emanava la Sentenza n. 333/ 2017  imperniata sull’art 2052  CC che così recita :  “il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”.

Nella Sentenza viene rimarcato che il proprietario dell’animale è colui che ha il diritto di proprietà su di esso e ciò lo si può evincere dal nome dell’intestatario del cane nel registro dell’anagrafe canina; invece l’ utilizzatore è colui che se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, ha la disponibilità momentanea dell’animale, lo utilizza per un determinato periodo di tempo e poi lo restituisce al legittimo proprietario.

Quest’ultimo, quando ha la disponibilità dell’animale, è tenuto ad osservare le regole di normale diligenza per la custodia del cane e risponde dei sinistri cagionati dall’animale anche se non è proprietario; per essere esenti da responsabilità, dovrebbero dimostrare il caso fortuito.

Il Tribunale di merito sancisce che  i convenuti non hanno dimostrato che la caduta della Signora è stata cagionata da una condotta di guida negligente e imprudente della stessa, sicché il sinistro è da ricondurre all’improvviso e repentino attraversamento del cane; a sua volta per la ciclista  usando l’ordinaria diligenza l’attraversamento era fattore imprevedibile.

Conclusione vi è la responsabilità dell’utilizzatore per mancata custodia. Il Tribunale  nella Sua decisione rimarca anche quanto statuito dalla Corte Suprema di Cassazione (Sentenza n.979 del 21.01.2010), in tema di danno cagionato da animali ; ovvero rimarca che ’art.2052 c.c. impone l’obbligo di osservare determinate cautele, fatta salva la prova del caso fortuito, sia al proprietario dell’animale, sia a chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso. Il proprietario si libera dalla relativa responsabilità se prova di essersi spogliato dell’utilizzo dell’animale, senza che a tal fine possa essere ritenuta sufficiente la prova del momentaneo affidamento dello stesso ad altri.

Nel caso specifico è invece pacifico che la proprietaria del cane non aveva la vigilanza e la sorveglianza dell’animale, quindi, al momento del sinistro l’unico ad esercitare un’effettiva vigilanza e sorveglianza dell’animale era il figlio; ed è quindi in capo al medesimo che deve configurarsi la responsabilità ai sensi dell’art.2052 c.c. Non solo! Il tribunale di Pordenone ( nel riprendere quanto specificato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.25738 del 22/12/2015 ) sottolinea che essendoci stato da parte della proprietaria uno spoglio , non sussiste il vincolo di solidarietà con il figlio ; quindi la sentenza in oggetto condanna solo l’utilizzatore dell’animale a risarcire alla Signora i danni patrimoniali e non patrimoniali  quantificati nella somma complessiva di 24911,00 euro (specificatamente 20426,00 per invalidità permanente e 4485,00 per invalidità temporanea).

In ordine alla copertura assicurativa la Sentenza stabilisce che la difesa del figlio avrebbe dovuto tempestivamente chiamare in causa la Compagnia assicuratrice, mentre ciò non era stato fatto tempestivamente  e conseguentemente, anche se la chiamata era avvenuta correttamente da parte della difesa della madre, non essendo ravvisata la responsabilità in capo alla stessa, la Compagnia assicuratrice non è tenuta a manlevare la posizione del figlio.

In conclusione la Sentenza appare rigorosa sotto il distinguo tra proprietario ed utilizzatore, mentre nella sostanza e nello sviluppo dei fatti lascia qualche interrogativo la gestione del rapporto con la Compagnia Assicurativa; per meglio comprendere questo sarebbe necessario esaminare la stipulata Polizza.